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Ha prevalso il voto degli esclusi
 
di Giuseppe Ladetto
 

Da sempre ritengo che ogni fenomeno debba essere inserito in un contesto ampio che va al di là dell’ambito in cui si è manifestato perché, oltre alle cause particolari che lo determinano, ci sono sempre fattori di ordine più generale che condizionano i fatti.
In questa ottica, mi sono trovato in piena sintonia con quanto ha scritto Luigi La Spina su La Stampa del 9 giugno a commento dei risultati del primo turno elettorale. Dice La Spina che i commenti fatti dalla classe politica ai risultati delle elezioni municipali rivelano l’enorme distacco della sedicente “élite” dalla realtà del Paese, una élite che continua a guardare con gli occhiali del Novecento le profonde e tumultuose trasformazioni in atto. Si continua a ragionare di “destra” e “sinistra”, di “conservatori” e “progressisti” quando gli schieramenti sociali oggi si articolano sul binomio “integrati” ed “esclusi”. È su questa contrapposizione che si disegnano i differenti risultati tra periferie urbane e zone centrali. Non ha più senso la divisione socio-politica tra lavoratori dipendenti schierati a sinistra e autonomi che scelgono la destra. La globalizzazione li ha accomunati in un nuovo tipo di proletariato precario e sfiduciato. La mobilità elettorale (con l’astensionismo, aggiungo io) è il segnale di una domanda politica che non trova alcuna offerta adeguata alle necessità concrete e che sia convincente e capace di soddisfarle.
A sinistra, si immagina che la soluzione consista nella ricetta socialdemocratica o laburista che non ha più una base sociale di riferimento e che è in piena crisi nei paesi scandinavi a fronte dei processi migratori e delle politiche finanziarie.
A destra, si invoca la ricomposizione di uno schieramento moderato quando il ceto medio in piena crisi e fortemente arrabbiato è spinto verso le estremità più radicali dello schieramento politico.

Se le cose stanno come dice La Spina, come spiegare il diverso andamento del voto in due città come Torino e Milano?
In un mondo caratterizzato da una feroce competizione all’insegna di “mors tua, vita mea”, la lotta per il successo o per non soccombere riguarda non solo le persone, i ceti sociali e le nazioni, ma anche le città e le regioni. Milano e la Lombardia sono (da sempre) aree forti, confrontabili a Monaco e Francoforte, alla Baviera o alla Renania. La più parte dei milanesi e dei lombardi crede o spera di farcela in questa lotta per stare ai vertici e si affida a politici che condividono le politiche economiche imposte dalla globalizzazione, quelle fatte su misura per i vincenti (magari con qualche ritocco di destra o di sinistra). E non si affidano a chi contesta il sistema.
Altrove, e ciò vale anche per Torino, l’idea di poter entrare a far parte delle aree forti (come ci dicevano in questi ultimi anni quanti si sono raccolti intorno ai sindaci PD torinesi) si è rivelata illusoria, specie da quando la FIAT ha abbandonato la città in cui era nata. E con lei altre imprese, banche, case editrici e istituzioni.
A determinare la forza di un’area, non bastano certo gli eventi culturali e il turismo, e neppure il mitico Politecnico (e ancor meno ricorrere all’inglese per etichettare ogni evento cittadino).
La gente lo ha capito e si è affidata a chi, consapevole di questo obiettivo mancato e sempre più lontano, cerca di andare incontro alle necessità di chi resta indietro (vedi il reddito di cittadinanza, la bandiera del Movimento) senza rinunciare a darsi da fare con i pochi mezzi a disposizione perché la città non sia ulteriormente spinta indietro nella competizione.
Credo che questa sia la causa prima della sconfitta di Fassino e del mondo che rappresenta.
I nuovi ce la faranno? Non lo so, e non mi nascondo le enormi difficoltà che hanno di fronte. Comunque me lo auguro, indipendentemente da chi essi siano, e da quanto le loro idee distino dalle mie.