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Riforma costituzionale: più luci che ombre
 
di Rodolfo Buat
 

La legge di riforma costituzionale riguarda quattro aspetti essenziali: le revisione del Senato della Repubblica, l’abolizione delle Province, l’abolizione del CNEL, l’abolizione della cosiddetta legislazione concorrente fra Stato e Regioni. Non mancano altre novità interessanti, tese a riscrivere o integrare alcune parti della Costituzione. Significativa (e meno citata) è l’introduzione del concetto di “trasparenza” dell’azione amministrativa che si ritrova nei riformati articoli 97 e 118. Ma da non dimenticare in generale un rafforzamento degli strumenti di garanzia, fra i quali anche il rafforzamento dell’istituto referendario (abrogativo e in futuro propositivo), il limite alla decretazione di urgenza, il controllo preventivo della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali.
Si tratta di una riforma perfettibile, ma si sa: i testi di legge sono frutto di compromessi. Non appare tuttavia una riforma eversiva, anche se non si può nascondere che essa suscita un po’ di malinconia politica e istituzionale.
L’abolizione delle Province, ad esempio, è un colpo pesante a una certa visione dell’organizzazione dello Stato che ha avuto proprio nelle circoscrizioni provinciali i suoi fondamenti storici e amministrativi. Tuttavia, non si può ignorare il fatto che nel corso della vita repubblicana mai le Province hanno assunto quel ruolo di amministrazione generale sovra comunale che anche la Costituzione avrebbe voluto, rimanendo collegate solo ad alcune funzioni specialistiche. In ciò, schiacciate dal prevalere della logica del decentramento dei poteri dello Stato e, a partire dagli anni ’70, dall’istituzione delle Regioni che ne hanno occupato gran parte dello spazio (per inciso, proprio le Regioni si sono con ciò mosse al di fuori dei limiti costituzionali, andando ben oltre i compiti meramente legislativi alle stesse riservati).
Quanto avremmo voluto un organo di raccordo in grado di assicurare la programmazione dei servizi su area vasta o di amministrare l’ambiente e il paesaggio o di integrare i piani urbanistici comunali in una visione più ampia del territorio! Non è avvenuto. Ed è stato così sin troppo facile sacrificarle sull’onda della richiesta di riduzione dei costi della politica. Vale solo la pena riflettere sul fatto che la perdita del rango costituzionale non impedisce al legislatore nazionale e regionale di intervenire sulla materia del governo locale di area vasta in modo più efficace rispetto al passato.
Anche l’abolizione del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) rappresenta una rinuncia significativa a un certo modello di governo dell’economia. Quando si parla di ruolo pubblico dell’economia, di definizione degli ambiti della politica industriale, di semplificazione dei contratti di lavoro, di riforma della rappresentanza sindacale, di aggiornamento e revisione degli ordini professionali (e si potrebbe continuare), si sente la mancanza di un’istituzione di raccordo e di confronto. È un ruolo che il CNEL tuttavia non ha mai saputo o potuto affermare.
Tale malinconia non si estende alla fine del bicameralismo perfetto che la riforma del Senato sancisce. Prevalentemente non è mai stato considerato un valore, ma semmai un limite della nostra Carta Costituzionale. Sul bicameralismo perfetto poggiava, infatti, più un’esigenza di equilibrio e di compromesso politico, che una necessità istituzionale. Una soluzione lontana dalle ispirazioni giacobine della Sinistra, più interessata ad un’unica Assemblea secondo il principio della Rivoluzione Francese della cosiddetta volontà nazionale. Una soluzione lontana anche dalla complessa visione dei “cattolici”, così attenti alla necessità di una Camera che desse voce alle “autonomie locali” e alle “formazioni sociali”. Certamente lontanissima dalla visione della Destra storica, più incline ad aggiornare in chiave repubblicana il Senato Regio. Qualcosa però si salvò nel compromesso. Era l’idea di una Camera Alta che avesse una fonte di legittimazione distinta (ad esempio un elettorato attivo e passivo più anziano ovvero un sistema elettivo per collegi uninominali) da quella della Camera dei Deputati. Una lieve traccia mai valorizzata e poi ignorata dall’affermarsi della cosiddetta Repubblica dei Partiti, che finì con l’appiattire l’autonomia e la funzione distinta delle due Camere.
Un tema quest’ultimo che ha visto protagoniste le stesse Regioni, soprattutto dopo l’avanzata delle sinistre nel 1975, utilizzate in chiave di riequilibrio, non tanto delle Autonomie territoriali verso lo Stato centrale, quanto delle opposizioni parlamentari verso le maggioranze di governo. Si trattò di un’operazione utile sul piano storico, perché consentì la gestione del conflitto sociale e l’allargamento del consenso proprio nei momenti di maggior fragilità per la democrazia, attraversata dalla strategia della tensione prima e dal terrorismo poi, e al tempo stesso bloccata rispetto alla logica naturale dell’alternanza al potere. E tuttavia, sotto il profilo dell’economia istituzionale, si trattò di una tendenza che ha lasciato un’eredità pesante in termini di duplicazione di funzioni, crescita dei costi, sottrazione di ruolo ad altri ambiti di autonomia locale.
A ben guardare la riforma costituzionale interviene oggi con un certo ritardo a correggere la Carta là dove l’applicazione della stessa è parsa nel tempo quanto mai carente o superficiale. Lo fa in una fase avanzata della cosiddetta “globalizzazione”, nel pieno di una difficilissima gestione dell’integrazione europea, nel cuore di una crisi economica e sociale dove la sfiducia nel futuro appare l’elemento caratterizzate più grave delle pur gravi componenti materiali relative a investimenti, redditi e lavoro. Lo fa in un tempo in cui la capacità di riformare, programmare, decidere in tempi relativamente brevi diventa essenziale per governare il sistema e non essere governati. Forse coloro che esprimono sfiducia nella riforma costituzionale sottovalutano la crisi economica dell’ultimo decennio ancora in atto. Eppure la storia ci insegna che una democrazia impotente è una democrazia in pericolo. Certo lo scudo europeo ci rassicura e tiene lontano l’incubo di Weimar, ma non deve far dimenticare che ognuno deve fare comunque la sua parte, soprattutto alla luce delle tensioni presenti fra gli stessi popoli europei e delle spinte autoritarie così condizionanti nell’affrontare le difficili sfide politiche dell’oggi.
La differenziazione di funzioni fra Camera e Senato, da un lato, e fra Stato e Regioni, dall’altro, favorisce decisamente il consolidamento di istituzioni democratiche più semplici e più efficaci.
Il modello adottato non è esente da rilievi critici. Ad esempio, a me pare eccessivo aver estromesso il Senato dalle deliberazioni sullo stato di guerra e dalle ratifiche dei trattati internazionali. Non sono temi di grande ricorsività, ma sono temi di grande delicatezza che avrebbero meritato una doppia lettura. Così il regionalismo esce forse troppo indebolito dalla riforma, essendo la nuova ripartizione dei compiti avvenuta unicamente a vantaggio del “centro”.
Certo, una sottrazione di materie, compensata dal fatto che nel “centro” ci sono ora anche le stesse Regioni e in parte i Comuni che formano con i loro rappresentanti il Senato. E, a mio giudizio, il nuovo Senato delle Autonomie sarà in grado nel tempo di essere l’elemento di raccordo fra le esigenze delle Regioni e dei Comuni e le necessità dello Stato con un ruolo crescente, non solo sotto il profilo istituzionale, ma anche politico.
Qualcuno vede nell’elezione indiretta (con un testo che purtroppo le polemiche interne al PD hanno complicato) un limite alla “forza” del nuovo Senato. Personalmente lo vedo invece un puntello. Attraverso l’elezione indiretta sono infatti anche le stesse Regioni a essere presenti in Senato con il potere che deriva dalla rappresentanza territoriale. Non solo, quindi, 100 pur autorevoli senatori, ma anche le istituzioni locali e i territori. Ma vi è anche un altro aspetto. L’elezione diretta di 100 senatori avrebbe richiesto collegi molto vasti con competizioni elettorali sostenibili solo attraverso la disponibilità di significative risorse economiche. Il rischio sarebbe stato quello di avere un Senato espressione più di interessi settoriali (pur legittimi) che dell’interesse generale. È purtroppo la realtà del modello elettivo del Parlamento Europeo che non a caso non è riuscito ancora a portare i popoli in Europa.
Il Senato potrà, quindi, essere un’istituzione forte e legittimata. Ed è bene che ci sia. L’eliminazione tout court dello stesso avrebbe sottratto equilibrio ai poteri dello Stato, e in particolare avrebbe privato il sistema di un soggetto istituzionale di controllo, di confronto e di armonizzazione. Sarà poi la cosiddetta “costituzione materiale” a definire quanto e in che modo questa potenzialità potrà esprimersi.
Nel complesso, il merito della riforma non contiene elementi tali da dover allarmare per il futuro della democrazia. Né contiene profili che contraddicano l’impianto fondamentale della Carta originaria. Anzi, per certi aspetti ne è anche sul piano “filosofico” la continuazione. Forse più calzanti sono le critiche di mettono in luce taluni limiti “tecnici” del nuovo impianto, che dovrà dimostrare di reggere alla prova, soprattutto per quanto riguarda l’azione legislativa sicuramente resa più complessa dalla differenziazione di funzioni fra Camera e Senato.
Sarebbe però sbagliato concentrarsi solo sul merito della riforma. La stessa porta con sé in realtà stringenti motivi di interesse politico. In particolare occorre chiedersi se le conseguenze politiche del referendum confermativo non siano più gravi e più pesanti delle implicazioni istituzionali della riforma stessa. Le ultime elezioni amministrative dimostrano che la sconfitta del Partito Democratico non apre le porte a sinistra, ma le apre a destra o in direzione dell’antipolitica, e cioè verso due mondi che hanno, sì, modelli di riferimento istituzionali per così dire eversivi: la destra, un modello presidenziale; i movimenti, un modello per così dire plebiscitario. Per questo valorizzare la riforma in atto significa essere quanto più vicini oggi è possibile a una continuità con lo spirito costituente, ma al tempo stesso aderenti a una richiesta di riforma della politica che viene dai cittadini.


Mario Chiesa - 2016-06-15
Ottima riflessione che condivido in pieno. Ma intervengo per segnalarne un aspetto, che dovrebbe essere sempre tenuto presente: la riforma costituzionale non è una esercitazione universitaria di diritto costituzionale, ma un atto politico (anche la Costituzione fu un atto politico) e come tale va valutato, nella concreta situazione politica attuale.