Sentiamo continuamente dire che la globalizzazione è un fenomeno irreversibile, un fenomeno positivo che ha generato un grande progresso, sia in ambito economico sia sul piano sociale, consentendo lo sviluppo dei Paesi emergenti e il miglioramento delle condizioni di vita nel Sud del mondo. Certamente, si aggiunge, ci sono anche ricadute negative, ma tuttavia ampiamente compensate dagli aspetti positivi.
Forse è il caso di soffermarci su questa valutazione.
Fino a qualche tempo fa, a denunciare gli aspetti negativi della globalizzazione, erano solo i cosiddetti “no-global”, una minoranza molto attiva, ma non presa in alcuna considerazione da quel “mondo responsabile” che costituisce ancora oggi l’establishment al vertice dell’economia, della tecnica e dell’informazione. Nessuno poi osava mettere in dubbio, salvo qualche isolato studioso controcorrente, che la crescita dell’economia (misurata in termini di PIL) non coincidesse con l’aumento del benessere. Fra questi coraggiosi, voglio ricordare Stefano Bartolini, docente di economia dell’Università di Siena, che in Manifesto per la felicità, edito nel 2010, ha affrontato proprio questo tema.
Egli si chiede come sia possibile che la gente nei Paesi occidentali non si senta più felice malgrado i risultati raggiunti in tema di speranza di vita, prosperità economica, standard educativi, igienici e sanitari, progresso tecnologico, libertà politica ecc.
La risposta sta nel peggioramento della qualità dell’esperienza relazionale degli individui che le società occidentali mostrano da tempo. Gli effetti positivi sul benessere dovuti al miglioramento delle condizioni economiche sono annullati o ridimensionati da fattori negativi quali aumento della solitudine, difficoltà comunicative, paura, senso di isolamento, diffidenza, instabilità delle famiglie, fratture generazionali, diminuzione della solidarietà e dell’onestà, ridotta partecipazione alla vita sociale e civica, peggioramento del clima sociale.
Per fare fronte a questi aspetti negativi del vivere, il solo mezzo a disposizione delle persone sembra essere il denaro: con esso, per avere momentanee gratificazioni, si può ricorrere ai consumi; con esso si possono acquistare beni status symbol per certificare un apparente successo nella vita sociale. Si afferma così una cultura del consumo per la quale le motivazioni (cosiddette estrinseche) esterne alle attività svolte (quali appunto il denaro o un apparente successo) hanno prevalente importanza rispetto a quelle intrinseche come la soddisfazione di fare bene ciò che si fa, il compiere il proprio dovere, il senso civico. Questa cultura del consumo tende a far considerare le persone che ci circondano come oggetti, influenzando negativamente le relazioni con gli amici, con i partner affettivi, con i colleghi e con i compagni di lavoro. Le persone dedite al consumismo, rileva Bartolini, hanno una vita povera di emozioni e di sentimenti positivi; manifestano scarso livello di autostima e sono insoddisfatte della propria esistenza.
L’economista evidenzia la presenza di un collegamento tra il degrado relazionale (che è parte significativa del degrado sociale) e il dinamismo economico, due aspetti che caratterizzano le “società avanzate”. Il denaro garantisce forme di protezione, reali o illusorie, rispetto alla povertà relazionale e al degrado ambientale. Nel contempo, il degrado del tessuto sociale e dell’ambiente si accompagna alla distruzione di beni di natura non economica (paesaggi, aria salubre, spazi di vita sociale, ecc.) spingendo le persone a sostituirli con beni acquistabili sul mercato. Di conseguenza, dobbiamo ottenere più denaro (lavorando di più e producendo di più) per ottenere beni che in passato erano comuni e gratuiti.
Così il degrado relazionale e quello ambientale alimentano la crescita economica e del PIL.
A tal fine, i media esaltano il successo, la ricchezza e le merci. La pubblicità, sempre più invasiva, un tempo si limitava a illustrare le caratteristiche utili dei prodotti da lanciare sul mercato. Oggi, crea associazioni con emozioni positive (inclusione sociale, successo) che il prodotto reclamizzato in realtà non è in grado di assicurare; ci propone i prodotti come sostituti di tutti quei beni relazionali (amore, affetti, amicizia) che sono stati distrutti nel mondo attuale, ma i prodotti sono solo delle cose materiali, incapaci di generare sentimenti o emozioni.
L’attuale economia di mercato promuove un sistema economico-sociale che mette in relazione gli individui per esclusivi motivi strumentali: la società (il nostro stare insieme) è infatti fondata sul solo interesse personale. Scrive Bartolini che tanto maggiore è il grado di penetrazione dei rapporti di mercato nelle relazioni sociali, tanto più risultano diffusi “valori” negativi, sia per chi li abbraccia, sia per la società nel suo insieme. Oggi, si assegna al solo mercato il compito di destinare le risorse al fine di soddisfare bisogni essenzialmente di natura individuale. Il mercato, tuttavia, è in grado di soddisfare i bisogni solamente con i beni che riesce a trasformare in merci. Ma, ci dice Bartolini, non tutti i beni hanno questo requisito: quelli relazionali non hanno natura commerciale e il mercato è totalmente inadatto alla soddisfazione dei bisogni affettivi. Anche i beni ambientali e molte risorse naturali non sono privatizzabili e collocabili sul mercato come merci.
Tutto ciò accade a seguito della globalizzazione che, con la caduta delle barriere doganali e la piena liberazione dei movimenti dei capitali, ha dato vita a un processo che appare incontrollabile e al quale nessun Paese sembra poter sfuggire. I destini delle imprese e le vite delle persone appaiono scanditi da un percorso forzato, non governabile. Il senso della possibilità rimane confinato all’interno delle logiche di mercato e rivolto soltanto agli acquisti, ai guadagni e alla competizione. L’ambiente economico e sociale non viene mai messo in discussione: è ritenuto immodificabile, mentre si richiede agli individui la capacità di adattamento all’ambito in cui vivono.
Per Bartolini, occorre cambiare radicalmente l’organizzazione della società giacché l’attuale crescita alimentata dal consumismo non è sostenibile, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello relazionale. Il miglioramento della condizione umana passa per vie che implicano migliori relazioni interpersonali e migliore qualità ambientale, in parallelo alla riduzione dei consumi privati e ad una maggiore offerta di beni e servizi di uso comune e gratuito.
A chi dice che una tale prospettiva è irrealizzabile perché la disoccupazione dilagherebbe senza la domanda di beni e di servizi sostenuta dalla cultura consumistica, Bartolini risponde che ci sono soluzioni al problema perché la sfera economica e l’ambiente sociale sono prodotti dell’attività umana, e pertanto possono e devono essere indirizzati verso obiettivi condivisi e voluti dalla maggioranza dei cittadini.
È possibile quindi progettare una società diversa, più attenta alle esigenze delle persone.
Il libro di Bartolini è stato ignorato, o, se preso in considerazione, è stato incluso fra i tanti messaggi utopistici di quanti si pongono fuori del mondo reale. Fino a ieri, vedevamo manifestare la stessa indifferenza e sentivamo dire le stesse cose a proposito di chi denunciava la minaccia dei cambiamenti climatici e la crisi ambientale. Alcuni autorevoli economisti addirittura negavano che fossero in atto modificazioni del clima indotte dalle attività umane. Ora, da qualche tempo, c’è più prudenza in materia, perché il tema dell’impatto del mercato globale e del consumismo sull’ambiente comincia in qualche misura a essere recepito da significativi segmenti dell’opinione pubblica.
È invece assai meno percepito il nesso fra l’attuale assetto economico-sociale e la qualità del vivere. Tuttavia c’è la novità dell’enciclica Laudato si’ che, oltre a evidenziare le problematiche ambientali, affronta anche i temi delle ricadute negative della globalizzazione e della crisi della vita di relazione prodotta dall’attuale sistema economico-sociale. Il Pontefice, fra i cambiamenti negativi indotti dalla globalizzazione, include gli effetti occupazionali di alcune innovazioni tecnologiche, l’esclusione sociale, la disuguaglianza nella disponibilità e nel consumo dell’energia e di altri servizi, la frammentazione sociale, l’aumento della violenza e il sorgere di nuove forme di aggressività sociale, il narcotraffico, il consumo crescente di droghe fra i più giovani e la perdita di identità. E aggiunge: “Sono segni, tra gli altri, che mostrano come la crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita”. Infatti, aggiunge: “Alcuni di questi segni sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale”.
Credo che le parole di Papa Francesco possano contribuire a far comprendere meglio l’origine di molta parte del malessere sociale riconducibile al continuo peggioramento della vita di relazione e consentano di porre questa problematica all’attenzione dell’opinione pubblica. |