Francamente non pensavo più di intervenire sui temi inerenti alla discussa proposta di legge Cirinnà. Tuttavia mi è capitato tra le mani un articolo di Gian Enrico Rusconi, su “La Stampa” del 6 marzo scorso, che in quella data mi era sfuggito, e che ritengo richieda un commento.
L’autore, dopo aver richiamato il rispetto della condizione etsi Deus non daretur nella conduzione dei dibattiti, scrive: “A questo proposito è bene ribadire che la laicità non è semplicemente una opzione privata (una visione del mondo omologabile alla fede religiosa), ma è lo statuto stesso della cittadinanza. Laicità è la disponibilità a far funzionare le regole della convivenza democratica partendo dalla pluralità e persino dal contrasto delle ‘visioni della vita’ e della ‘natura umana’ che hanno i diversi cittadini. Questo punto rischia di diventare un grosso problema proprio perché quella di ‘natura umana’ è il concetto forse più divisivo nella cultura contemporanea e per molti versi ha forti implicazioni religiose. Prendiamo ad esempio l’idea di matrimonio e di ‘famiglia naturale’ che è diventato un cavallo di battaglia nelle recenti polemiche parlamentari di casa nostra. (…) I parlamentari cattolici non introducono esplicitamente nel discorso pubblico-politico l’argomento religioso che fa riferimento diretto alla creazione secondo la tradizione cristiana. Ma rimangono assolutamente impermeabili ad ogni argomentazione storica, scientifica e antropologica che mostra quanto varia e complessa è stata ed è l’unione tra uomo e donna (e la famiglia in generale) in tutte le culture compresa quella cui apparteniamo”.
Non so, né mi sento autorizzato a supporre quali siano le motivazioni recondite dei parlamentari cattolici che si sono opposti al progetto di legge Cirinnà, così come quelle degli autorevoli membri cattolici del Governo che ha inteso sostenere il provvedimento; ma ricordo che, a opporsi ai modelli nuovi di famiglia, ci sono anche parlamentari non credenti o comunque non etichettabili come cattolici (penso a Mario Tronti, marxista, già ideologo dell’operaismo). È bene ribadire questo fatto, perché va respinto il sempre reiterato tentativo di ridurre la questione a uno scontro tra sedicenti laici e cattolici.
Tuttavia è vero che varia e complessa è stata ed è l’istituzione familiare. Però, andando a vedere quanto hanno scritto in materia noti studiosi di antropologia, troviamo che, in tutte le culture da loro esaminate, la famiglia (sia quella monogamica, sia quella poligamica, sia nelle società patriarcali, sia in quelle matriarcali) è il luogo di generazione, crescita ed educazione di coloro che assicurano la continuità della comunità, che pertanto ad essa concede sempre una qualche privilegiata attenzione, e frequentemente ne celebra la fondazione con dei rituali (il matrimonio).
Non dimentichiamo che la nostra è una specie sociale, e che a tale dimensione deve la propria sopravvivenza. Ho già evidenziato in un precedente articolo che la “natura umana” esiste, ed è il frutto del processo evolutivo. Una evoluzione che nel suo procedere ha richiesto migliaia di anni e una pressione selettiva costante, mentre la cultura muta sensibilmente e si diversifica da luogo a luogo sempre in tempi storicamente brevi.
Pur nella loro variabilità, le varie forme storiche di famiglia hanno tuttavia un denominatore comune. In primo luogo c’è la generazione, che fino a oggi ha coinvolto una donna e un uomo. La continuità della vita è assicurata dalla riproduzione; e si tratta di una continuità che riguarda la trasmissione del patrimonio genetico di chi è coinvolto in essa.
L’Angelo del Signore, dal cielo, disse ad Abramo: “In fede mia ti giuro (parola del Signore) che ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”. Questo passo della Genesi (22,17) ci mostra come fin dai tempi antichi venisse chiaramente percepito il ruolo fondamentale che ha per ogni essere umano, e per ogni vivente, la trasmissione del proprio patrimonio genetico a una discendenza possibilmente numerosa. Ma oggi c’è chi pretende che si possa ignorare tutto questo. In materia, scrive Giulia Galeotti (In cerca del padre. Storia dell’identità paterna in età contemporanea, Laterza): “Il crescente sviluppo delle tecniche di fecondazione assistita, sempre più sofisticate ed efficaci, sta rendendo obsoleto il concetto di paternità basato sul dato biologico”. Affermazione pericolosa perché trascurare la dimensione biologica dell’essere umano (che ha al suo centro la trasmissione del patrimonio genetico) significa ignorare le profonde emozioni scatenate da ogni violazione degli istinti più vitali che presiedono ai comportamenti, anche quelli caratterizzanti il ruolo genitoriale, comprensivo di quello maschile.
Già perché donne e uomini, oltre ad essere indispensabili per la riproduzione, lo sono anche per il ruolo genitoriale. Infatti, anche nelle società in cui le caratteristiche della famiglia sono più lontane da quelle fino ad oggi vigenti in Europa, ci sono ruoli genitoriali ben definiti.
Sulla donna sono ricaduti e ricadono i compiti più impegnativi: gravidanza, allattamento; anche la cura del neonato nel primo periodo di vita è funzionale alla madre che sola sa dare sicurezza al bambino anche per quel forte legame, direi dialogo, che si è stabilito già nel corso della gravidanza. Il neonato, infatti, riconosce il battito cardiaco e la voce della mamma, suoni e vibrazioni che già percepiva quando dimorava nel suo ventre. Ma anche l’uomo ha compiti essenziali, ancorché meno onerosi: protezione dei figli e della compagna, fornitura di mezzi di sostentamento e di abitazione, contributo alla sorveglianza e all’istruzione dei figli, compiti che, nei tempi passati, incidevano significativamente sulle possibilità di successo della prole, e ancora sono importanti oggi.
E non c’é solo questo, perché, come scrive Aldo Naouri (pediatra e psicanalista francese) in I padri e le madri, il padre è importante in quanto deve interporsi tra la madre e i figli: il suo compito è educare, ovvero condurre fuori i figli dall’esclusivo controllo materno, dal suo abbraccio (che talora può essere soffocante) e dalle sicurezze che questo comporta, per mostrare loro la realtà, il tempo che scorre, gli inevitabili insuccessi presenti in ogni percorso di vita, affinché imparino a camminare con le proprie gambe, e possano guardare avanti verso il futuro. Secondo Naouri, stiamo assistendo, da qualche tempo nei Paesi occidentali, a un progressivo indebolimento del ruolo della figura paterna, un fenomeno che è causa non secondaria del disorientamento e dei malesseri che attraversano il mondo giovanile.
A guardare bene, si può notare che le novità proposte in tema di riproduzione e di genitorialità si collocano al di fuori di quel denominatore comune che riunisce tutte le tipologie di famiglia che si sono affermate nel corso della storia e nei più diversi luoghi del pianeta. Ma anche prescindendo da tale fatto, si pongono comunque degli interrogativi.
Scrive Rusconi che la laicità (ma direi il pensiero liberal) richiede, per far funzionare le regole della convivenza, il riconoscimento dei contrastanti concetti della “natura umana” e delle “visioni della vita” presenti nella società odierna. Mi chiedo, tuttavia, se, a fronte della eventuale richiesta di riconoscere forme di convivenza quali la poligamia, questi stessi “laici” sarebbero disposti ad accettare tali nuovi istituti o piuttosto non troverebbero a ridire in merito, mettendo in campo possibili “violazioni dei diritti” e argomenti similari. Eppure si tratta di tipologie familiari presenti in varie parti del mondo, tipologie che rientrano in quel denominatore comune di cui se è detto.
In realtà, è molto difficile per tutti accettare “innovazioni” dei costumi che stravolgono modi di vita e concetti più che millenari, che, per noi europei, risalgono all’Ellade e all’antica Roma. Così, non è scontato che sia realizzabile senza difficoltà la convivenza in una società in cui non siano più condivisi riferimenti profondamente radicati, fra i quali i concetti di “natura umana” e di “famiglia”.
In materia, Francis Fukuyama scrive, in La grande distruzione, che le uniche linee di condotta morali concepite in una società liberale sono gli obblighi universali alla tolleranza e al rispetto reciproco. Ma, aggiunge, se il rifiuto a dettare o tutelare regole morali diverse dalla tolleranza non ha costituito un problema in passato in società che erano omogenee sotto l’aspetto culturale e dominate da un solo gruppo etnico e religioso, non è certo che le società liberali potranno sopravvivere al multiculturalismo verso cui il mondo occidentale è incamminato. Inoltre,secondo il sociologo, le sempre nuove tecnologie e le trasformazioni economiche messe in atto da un capitalismo che procede mediante una “distruzione creativa” (demolisce continuamente le strutture esistenti per dare spazio al nuovo da erigere), stravolgono i modi di vita e i riferimenti condivisi. Tutto ciò inevitabilmente distrugge il capitale sociale, quell’insieme indispensabile di valori e di norme non ufficiali, condiviso dai membri di ogni comunità e società, che consente loro di aiutarsi a vicenda instaurando una reciproca fiducia.
Il capitale sociale può essere ricostruito (come è più volte capitato in passato), ma l’operazione richiede tempi lunghi, ed è incompatibile con il ritmo delle trasformazioni in corso.
Quindi, sarebbe il caso di essere molto prudenti nell’intraprendere sempre nuovi accelerati cammini e nello sperimentare nuovi modelli di istituzioni sociali che rompono radicalmente con riferimenti secolari. |