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Capire la complessità
 
di Marinella De Simone
 

Segnaliamo il convegno che sabato 5 si svolgerà al Cottolengo di Torino sul tema: “B-Corp & Terzo Settore. Nuovi orizzonti imprenditoriali per ricostruire il capitale sociale”. Il programma dettagliato della giornata è in allegato in calce all’articolo seguente.
Per meglio conoscere gli argomenti in discussione, pubblichiamo un articolo del presidente del Complexity Institute, promotore dell’iniziativa, sul concetto sociologico di complessità.


È difficile definire cosa sia la complessità: spesso il termine complessità viene definito in antitesi al concetto di semplicità, confondendo così il concetto di complessità con quello di complicazione.
È interessante, per comprendere la differenza di significato tra il termine complesso e il termine complicato, risalire all’aspetto etimologico delle parole: mentre complicato deriva dal latino cum plicum, che significa “con pieghe”, complesso deriva dal latino cum plexum, che significa “con nodi”, intrecciato.
Già etimologicamente, quindi, il termine complesso si distingue da quello di complicato: l’etimologia latina plicum richiama la piega del foglio, che deve essere “spiegato” per poter essere letto e compreso, mentre il plexum è il nodo, l’intreccio, come quello di un tessuto o di un tappeto, che non si può sbrogliare senza che si perda la sua stessa natura, la visione d’insieme che esso consente. Se di un tessuto, o di un tappeto, sciogliamo i nodi dell'intreccio, ci rimarranno nelle mani i fili con cui è stato composto, ma avremo perso il disegno complessivo cui dava forma.
L’approccio ai problemi definiti “complicati” è un approccio di tipo analitico: il problema si suddivide in parti, le quali vengono studiate, analizzate e solo successivamente ricomposte, in modo da riuscire a comprendere il problema nel suo insieme. Dal punto di vista della complessità, invece, un problema non si può suddividere o segmentare, poiché il fenomeno da analizzare perderebbe il suo significato.
Per avvicinarsi a problemi definibili come “complessi” bisogna seguire una metodologia diversa: da un lato è necessario applicare un approccio di tipo sistemico, che consente di avere una visione del problema nella interezza delle sue connessioni; dall’altro è necessario applicare un approccio emergenziale, che consente di chiedersi quali potranno essere le evoluzioni nel tempo del sistema di connessioni che definiscono il problema stesso.

Studiare la complessità porta a comprendere che tutto è fondato su un principio relazionale, il “cum”, di cui non si può non tener conto: non si può non tener conto di quanto le relazioni siano fondamentali nel modificare l’assetto del contesto in cui viviamo. Ecco perché, parlando di complessità, spesso se ne parla come di un “paradigma relazionale”, distinguendolo così dal “paradigma separativo” su cui è stata fondata la nostra cultura dalla fine del ‘400 a oggi.
Il contesto in cui ci troviamo oggi a vivere è un contesto che non ci consente più di portare avanti il paradigma precedente; il modo di pensare che poteva andare bene forse fino a 30 o 40 anni fa, oggi non è più adeguato. Siamo ormai immersi in una realtà che risulta non più sostenibile nel tempo che abbiamo ancora a disposizione per noi e per le generazioni che ci seguiranno, per cui la necessità di dover cambiare i nostri presupposti è sentita in modo diffuso tra tantissime persone.
Il presupposto del paradigma relazionale: che siamo in relazione con tutto e tutti. Siamo in relazione con chi conosciamo, ma anche con chi non conosciamo; siamo in relazione con il contesto all’interno del quale ci muoviamo, ma anche con quello al di fuori del nostro ambito abituale; siamo in relazione con le condizioni climatiche che influiscono direttamente sul nostro ambiente, ma anche con quelle che agiscono al di fuori di esso. E tutto questo non solo nello spazio, vicino o lontano da noi, ma anche nel tempo: ciò che è avvenuto prima e ciò che ancora non è accaduto ma che si sta già preparando ad accadere come effetto delle nostre azioni o non azioni.
Qualsiasi cosa facciamo o diciamo, o non facciamo o non diciamo, ha degli effetti. Effetti che riusciamo a vedere, o ad immaginare, solo per un ambito ristrettissimo, quello che ci è più familiare, e per un tempo estremamente limitato, che possiamo misurare in ore, giorni, forse qualche settimana o mese.
Non siamo in grado di comprendere le relazioni, pur se necessariamente ci sono, tra ciò che stiamo facendo oggi (o non facendo oggi) e ciò che questo determinerà tra, poniamo, un anno.

Considerando che ciò vale per ognuno di noi, possiamo provare a immaginare le relazioni incrociate che si determinano per ogni nostra azione o non azione: l’effetto globale che otteniamo è di sentirci disorientati, sommersi da un presente quasi incomprensibile e da un futuro pressoché caotico.
Ecco perché è così importante comprendere quali siano le competenze che ognuno di noi deve sviluppare per acquisire maggiore consapevolezza delle relazioni all’interno delle quali è inserito e di quali possano essere gli effetti sia nello spazio che nel tempo del proprio agire.

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