Nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite tenutasi nei giorni 26-30 settembre 2015, nella discussione della situazione siriana, si è assistito a un confronto fra due modelli di ordine internazionale. Secondo Obama, questo va costruito basandosi sulla libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani, le leggi internazionali, e il consenso delle organizzazioni multilaterali quando si tratta di usare la forza. Secondo Putin, per costruire uno stabile ordine internazionale, occorre invece fare riferimento alle regole della diplomazia classica basate sul riconoscimento dei reciproci interessi nazionali, sull’equilibrio di potenza e sul rifiuto di ogni arrogante unilateralismo.
Questa contrapposizione di modelli è al centro di World Order (Ordine mondiale), il libro scritto a 91 anni da Henry Kissinger, definito il testamento politico di un uomo che durante le presidenze di Nixon e di Ford ha condotto con successo la politica estera americana mostrandosi capace di dare risposte concrete ai molti problemi aperti e di favorire un percorso di distensione.
Kissinger è universalmente considerato un fautore della Realpolitik. Secondo tale concezione, la prassi politica, nell’ambito dei rapporti internazionali, persegue esplicitamente interessi concreti, prescindendo da questioni ideologiche o etiche. Tuttavia egli non si considera un semplice realista, ma, come sottolinea più volte in questo libro, un fautore di un ordine mondiale teso a salvaguardare in primo luogo la pace.
Il suo punto di riferimento è il sistema scaturito della pace di Vestfalia, con la quale si è conclusa la Guerra dei Trent’anni, che, nel XVII secolo, distrusse e spopolò i territori tedeschi (da 24 milioni di abitanti a 5-6 milioni). I principi ispiratori dell’accordo stipulato tra i rappresentati dei Paesi coinvolti in questa terribile guerra, al fine di evitare nuove guerre così distruttive, prevedevano: 1) la definizione di un equilibrio fra le potenze europee partecipi di tali tragici eventi bellici; 2) la rinuncia da parte di ciascun Paese a imporre i propri principi religiosi, e i propri valori agli altri Paesi; 3) il mutuo rispetto dell’integrità territoriale, delle strutture politiche e della sovranità degli Stati; 4) la non interferenza negli altrui affari interni.
Una concezione dell’ordine internazionale fondata su tali principi è molto lontana da quella che caratterizza la mentalità americana corrente, per la quale gli obiettivi di politica estera sono definiti in termini ideologici di affermazione del bene rispetto al male. Questo approccio ideologico, secondo Kissinger, risale a Woodrow Wilson, che motivò l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande Guerra con la necessità di diffondere la libertà e la democrazia. Riteneva, infatti, che i Paesi democratici non fossero aggressivi per natura e che pertanto la diffusione della democrazia avrebbe portato alla pace permanente. Se non che, rileva Kissinger, questa è stata una forzatura interpretativa della realtà politica europea perché tutti i Paesi entrati in guerra nel 1914 (con l’eccezione della Russia zarista) disponevano di parlamenti eletti e di pari condizioni di libertà di stampa e di espressione del pensiero. Inoltre, nonostante i decantati obiettivi di pace perenne, i quattro leader dei Paesi vincenti, nei trattati di pace, imposero ai paesi vinti condizioni punitive assurdamente crudeli che (come ha denunciato John Maynard Keynes nelle Conseguenze economiche della pace) non avrebbero portato all’obiettivo pacifico dichiarato ma ad un quasi certo nuovo conflitto mondiale.
Questa visione ideologica dell’ordine mondiale ha costituito l’asse portante della politica estera americana fino ai nostri giorni, anche se in un primo momento fu l’America a non voler aderire alla Società delle Nazioni, temendo le difficoltà che comportava uscir fuori dalla fortezza continentale nord atlantica. Di fatto, scrive Kissinger, la più parte dei presidenti americani venuti dopo Wilson sono stati in qualche misura wilsoniani. Certamente ci sono stati atti ampiamente giustificati (come l’intervento nella Seconda guerra mondiale); in altri momenti, specialmente nel corso della “guerra fredda”, si è manifestato senso della realtà (è il caso, e non solo, degli otto anni della gestione della politica estera da parte dello stesso Kissinger).
Tuttavia, prudenza e senso della realtà sono stati messi da parte in seguito all’11 settembre 2001, quando il clamoroso attentato nel cuore di New York ha mostrato che l’America era esposta ad attacchi terroristici condotti da gruppi di fondamentalisti formatisi, o cresciuti, in Stati falliti o repressivi. L’America decise, pertanto, che la sua sicurezza e la sopravvivenza della sua libertà dipendevano sempre più dal successo della libertà nel mondo e dall’esportazione della democrazia ove essa è ancora assente. Di questo compito, si è investita come Paese guida dell’Occidente.
Gli sviluppi della situazione hanno mostrato che il tentativo di Bush di imporre i valori americani al Medio Oriente ha fallito rovinosamente l’obiettivo.
Neppure Barack Obama ha conseguito un risultato migliore con una politica che, seppure caratterizzata da un atteggiamento assai più moderato e prudente, resta ancorata al fine prioritario di mantenere al proprio Paese il ruolo di unica potenza di respiro globale (vedi l’atteggiamento sostanzialmente ostile verso la Russia e la Cina).
Si è così giunti alla situazione attuale, una situazione di grande pericolo tanto che il Pontefice ha parlato di una “terza guerra mondiale a pezzi”.
Ora, di fronte all’evidente mancanza di strategie che caratterizza i vertici americani e occidentali, al caos internazionale e ai crescenti pericoli di guerra, Kissinger si è fatto avanti per riproporre i principi vestfaliani, che ritiene siano ancora oggi i migliori, anche sul piano etico, per creare un giusto e stabile ordine internazionale.
A chi critica il suo realismo ritenendolo moralmente sospetto, se non cinico, Kissinger ribatte che gli idealisti non hanno il monopolio dei valori morali e che la realtà su cui fondare politiche costruttive comprende anche gli ideali, non solo i propri ma altresì quelli altrui. Kissinger, nel mettere a fuoco le concezioni dell’ordine internazionale sviluppatesi nei differenti Paesi, evidenzia l’influenza, su di esse, delle vicissitudini dei vari popoli: alla base di tali concezioni, c’é la storia e c’è la cultura delle nazioni.
Ma come possono differenti Paesi costruire accordi stabili quando radicalmente diverse sono le loro concezioni in materia?
Kissinger risponde che le culture non sono immutabili: infatti, sono in grado di evolvere e di influenzarsi reciprocamente quando ci siano dialogo e confronto in un’ottica non unilaterale. Pertanto, aggiunge, la storia non arriverà alla sua conclusione con l’affermazione planetaria del modello occidentale, e nemmeno il mondo è inevitabilmente destinato ad assistere ad uno scontro di civiltà. Kissinger, di conseguenza, auspica che America, Russia, Europa, Cina e le nuove potenze emergenti, di fronte al rischio di nuove devastanti guerre, comprendano la necessità di dare vita ad un vero ordine mondiale fondato su un insieme di regole condivise e su un equilibrio globale del potere. Il punto centrale sarà il principio vestfaliano di rispetto dei valori e delle strutture politiche degli Stati, e di non interferenza nei loro affari interni.
Il libro ha subito suscitato molti commenti e molte critiche in quanto propone un percorso in larga misura discosto da quello seguito per lungo tempo dall’America e dalla più parte dei Paesi occidentali.
In primo luogo, fra i critici, ci sono coloro che non deflettono dal sostenere percorsi bellicosi all’insegna della superiorità e dell’universalità dei valori occidentali. Altri, nel respingere le indicazioni di Kissinger, fanno leva sulle caratteristiche nuove delle minacce all’attuale assetto mondiale, in particolare nei confronti dell’America e dell’Occidente. Secondo questi critici, Vestfalia risulta una metafora antiquata di un ordine mondiale superato poiché una pace fondata sull’equilibrio tra le potenze non garantisce l’Occidente quando una minaccia, come quella islamica, proviene da chi non riconosce più il ruolo degli Stati, ma li considera ostacoli alla diffusione della propria fede religiosa, come fanno al Qaeda e Isis.
A parte il fatto che l’Isis mira a creare uno Stato, si potrebbe rispondere a questi critici che la situazione da loro denunciata è figlia della destabilizzazione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord prodotta proprio da quegli interventi tesi ad imporre i valori e gli interessi occidentali nell’area. Si può pertanto combattere il terrorismo senza percorrere la strada dello scontro di civiltà e senza imporre ai Paesi islamici valori e interessi a loro estranei.
Più ampie argomentazioni critiche fanno riferimento alle nuove minacce globali che si profilano all’orizzonte: i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse, le pandemie, le reti terroristiche, il crimine organizzato, ecc. Un ordine mondiale fondato sull’equilibrio tra le potenze non è più sufficiente a fronteggiare queste nuove minacce. Occorre fare molto di più che mantenere la pace, perché i fenomeni citati potranno provocare milioni di vittime, quanto e forse più delle guerre. Viviamo in un mondo di problemi globali e di soluzioni in gran parte nazionali.
C’è, pertanto, la necessità di istituzioni internazionali capaci di agire con la stessa efficacia degli Stati nazionali.
Essendo la globalizzazione irreversibile, la strada da seguire è la mondializzazione delle istituzioni: creare un governo mondiale di cui le Nazioni Unite sarebbero un embrione.
Ma i fallimenti di questa istituzione (come ieri quelli della Società delle Nazioni) dovrebbero pure dire qualche cosa ai sostenitori di questa tesi. Pensiamo alla pluriennale impotenza dell’ONU di fronte all’annosa e tragica questione della Terra Santa. Bisogna inoltre chiedersi se i tempi siano maturi per questo auspicato governo mondiale. Una tale ipotesi richiede la definizione di regole e valori comuni, che oggi non potrebbero essere diversi da quelli che il pensiero dominante ritiene universali, cioè quelli occidentali.
Invece, la dimensione interculturale è indispensabile per affrontare le questioni fondamentali del mondo attuale.
Ciò richiede un confronto che (come è stato autorevolmente detto) non può essere attuato puramente e semplicemente all’interno della sola razionalità occidentale, che si autodefinisce universale, mentre è comprensibile soltanto in determinati settori dell’umanità, non certo maggioritari. Nelle condizioni attuali, la prospettiva di governo mondiale viene a essere in contrasto con l’esigenza (al centro del discorso di Kissinger) di consentire ai diversi Paesi di operare in base alla propria cultura e ai propri principi.
Con una tale prospettiva di governo mondiale, si ritorna a quella concezione, già di Wilson, che il mondo possa essere reso buono da un’azione collettiva senza tenere conto delle esigenze dettate dalla storia e dalla geopolitica. Certamente le nuove minacce globali debbono essere affrontate, ma è impensabile che di fronte ad esse non ci siano valutazioni, interessi e logiche differenti, proprie dei vari Paesi. In un mondo multipolare, quale nella realtà è avviato a essere quello attuale, le strategie necessarie per affrontarle possono essere definite solo da un concerto delle potenze espressioni di grandi sistemi regionali in grado di mantenere la propria autonomia economica, politica e culturale: in sintonia con quei principi vestfaliani che, secondo Kissinger, sono i soli a poter garantire uno stabile equilibrio internazionale. |