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Zanone, ultimo liberale galantuomo
 
di Aldo Novellini
 

Alla vigilia di compiere 80 anni, è scomparso Valerio Zanone, segretario del Partito Liberale negli anni Ottanta, parlamentare per sei legislature, più volte ministro e sindaco di Torino a cavallo degli anni Novanta. Erede politico di Giovanni Malagodi, banchiere prestato alla politica che guidò il PLI tra i Cinquanta e i Sessanta, Zanone incarnò sin da subito l’anima riformista del partito, in contrapposizione proprio al conservatorismo malagodiano.
Un riformismo liberale portato avanti con coerenza, per fare uscire il suo partito, ridotto ai minimi storici, dalle secche in cui stava sprofondando a metà anni Settanta. Era l'epoca degli opposti estremismi, della contrapposizione tra neri e rossi, e pareva esservi poco posto per un'idea mite della politica, che faceva leva più sulla ragione che sull'ideologia. Per di più la DC, calatasi nel ruolo di diga democratica contro un PCI in impetuosa crescita, tendeva a debordare, togliendo spazio alle formazioni laiche.
Proprio alle elezioni del ’76, quelle del mancato sorpasso comunista ai danni della DC, Zanone riuscì a conquistare per un pugno di voti quei pochi seggi in Parlamento che mantenevano una presenza liberale nelle istituzioni.
Il PLI, in quegli anni, avversava il compromesso storico tra DC e PCI, che Moro e Berlinguer ritenevano un traguardo essenziale verso una democrazia compiuta, priva di fattori K, cioè senza esclusione a priori di alcuna forza politica dalle responsabilità di governo. Zanone, che pur rispettava il PCI nel segno del comune antifascismo, era contrario a questo abbraccio, perché confondere maggioranza e opposizione avrebbe significato una grigia unanimità, privando la democrazia di quella dialettica che egli, da autentico liberale, riteneva il succo stesso della vita politica.
Le sue idee ebbero maggior fortuna negli anni Ottanta, quando il PLI si aprì alla collaborazione con i socialisti. Il PSI che era stato venti anni prima lo spauracchio di Malagodi, diveniva con Zanone il cardine della nuova politica liberale. Nei governi di pentapartito a guida Craxi, Goria e De Mita, lo vediamo ministro: alla Difesa prima, all’Ambiente poi. Ruoli interpretati con grande sobrietà, in consonanza a quell'elevato senso delle istituzioni che sempre lo contraddistinse.
Quando crollò la Prima Repubblica anche il PLI si estinse. Alcuni suoi esponenti cercarono rifugio in Forza Italia. Scelta per molti versi comprensibile, ma per Zanone la strada non era quella. Egli non intravide mai nel partito di Berlusconi l’erede di quel liberalismo nel quale credeva e che, malgrado presenze ed esempi della forza di Luigi Einaudi, nel nostro Paese forse non era mai neppure nato. Per Valerio Zanone il mercato non può esser privo di regole; l'evasione fiscale è un reato e non una bandiera; pesi e contrappesi sono indispensabili alla vita democratica così come lo è l'indipendenza della magistratura. Connotati di indiscussa matrice liberale che certo non erano di casa nella corte del Cavaliere.
Zanone fu un po’ come Montanelli: adepto di un centrodestra sobrio e rigoroso che in Italia non aveva mai attecchito. E infatti, come il grande giornalista toscano, anche l’erede di Malagodi si ritrovò quasi naturalmente dalle parti dell’Ulivo prodiano. Ne fu deputato fino al 2008, nel segno di quell’incontro tra cultura liberale e socialista che, insieme all'apporto del cattolicesimo democratico, è stata alla radice del partito Democratico. Fugace invece la sua esperienza come sindaco di Torino, nel biennio, 1990-91, che precedette Tangentopoli. In ultimo ci fu la cultura politica con la Fondazione Einaudi, per promuovere gli ideali liberaldemocratici che sono stati la bussola della sua vita.
Laico e mai laicista, liberale e mai liberista. Un galantuomo piemontese che può davvero venir ricordato come l’ultimo erede del liberalismo italiano.