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Non siamo solo dei consumatori
 
di Giuseppe Ladetto
 

Oggi, da molta parte del mondo politico e dell’informazione, si invocano le liberalizzazioni, e si sollecita il governo a procedere speditamente su questo cammino. Certamente ci sono enti palesemente inutili e aziende pubbliche o semipubbliche addirittura create per collocare in esse personaggi politici di secondo piano e clientele.
Fino a qui nulla da ridire. Ma l’ambito delle privatizzazioni va ben oltre: riguarda poste, ferrovie, trasporti urbani, porti e aeroporti, e via dicendo. Grazie ad esse, si dice, i consumatori saranno meglio tutelati. Certamente contenere la crescita di prezzi e tariffe di beni e servizi basilari è un obiettivo importante, ma perché privilegiarlo rispetto ad altri di pari rilevanza?
Non siamo solo dei consumatori.
Se un dato assetto economico concorre ad abbassare prezzi e tariffe, ma nel contempo ci rende disoccupati, o ci costringe ad andare a lavorare lontano da familiari e amici, o ancora se peggiora le condizioni di lavoro o l’ambiente in cui viviamo, perché dovremmo privilegiare ciò che ci riguarda come consumatori rispetto a tutti gli altri aspetti della nostra vita?
Rilevo, inoltre, che le soluzioni prospettate dalla maggior parte degli economisti sono tese a definire le condizioni in cui è consentita la massima produzione di ricchezza organizzando al meglio i fattori della produzione, e che i risultati scaturiti sovente non coincidono con le aspettative della gente. A questa interessa il benessere, che tuttavia non è frutto esclusivo della crescita economica, includendo altri aspetti del vivere: equità distributiva, serenità sociale, tutela contro i rischi di vario ordine, stabilità, situazioni ambientali favorevoli ed ancora altre condizioni non legate al prodotto interno lordo, il sempre citato PIL.
Qualcuno dirà che sono considerazioni troppo facili o superficiali: non tengono conto che alla crescita del PIL sono legate esigenze vitali, come l’occupazione e i redditi, e che le liberalizzazioni vanno nella direzione di accrescere l’efficienza del sistema economico produttivo e quindi di favorire lo sviluppo da cui tutto dipende.

Tuttavia continuo a ritenere che qualche cosa non funzioni in questo ragionamento se, già negli anni Novanta, Ralf Dahrendorf, autorevolissimo economista e sociologo (già direttore della prestigiosa London School of Economics) nella prefazione di La libertà che cambia scriveva: "Ci sono domande che colgono impreparati i difensori della società aperta. Il mercato è davvero l’ultima parola in fatto di progresso sociale? Non stiamo distruggendo, in nome del mercato, aspetti della nostra vita non meno preziosi e forse più necessari di una maggiore disponibilità di beni? In omaggio alla flessibilità del mercato del lavoro, è così desiderabile che la gente si sradichi e si trasferisca in luoghi estranei? Per accrescere l’efficienza del commercio, vogliamo che i quartieri centrali delle nostre città diventino morti residui di età passate, mentre andiamo a far compere nei centri commerciali di periferia? L’esistenza di imprese altamente competitive e produttive circondate da un mare di disoccupazione e di povertà è davvero l’obiettivo supremo della nostra economia politica?"
Dahrendorf, che pur si considerava liberale, non aveva le certezze dei molti attuali liberali, (e in particolare di quelli di più recente conversione), sempre pronti a esaltare il mercato e la concorrenza. Infatti dichiarava che “la visione liberale non consente una risposta semplice a queste domande”.
Che non siamo solo dei consumatori, ce lo ricorda anche Alain Caillé (sociologo francese critico dell’utilitarismo) con una riflessione peraltro di assai più vasta portata. Scrive il sociologo: “Oggi nella società occidentale tutto è ritenuto perfettamente democratico. Il cittadino moderno, infatti, è doppiamente rappresentato: in primo luogo dai rappresentanti del popolo, poi dalle molteplici istanze corporative o sindacali incaricate di difendere gli interessi che si presume lo costituiscano. È rappresentato a titolo di lavoratore, di consumatore, di abbonato al gas e all’elettricità, quale mutilato o ragazza madre o filatelico o amico degli animali. La sola cosa che gli è vietata è comparire nella propria unità indivisa e parlare in nome di ciò che è nella sua totalità di soggetto umano e sociale, al di là della somma d’interessi particolari che ha l’obbligo di difendere”.

La scomposizione di tutta la realtà nelle sue molteplici sfaccettature è una conseguenza delle modalità operative della razionalità strumentale, che è propria della tecnica, e quindi anche dell’economia. Essendo essa volta esclusivamente a ottimizzare l’utilizzo dei mezzi, trova più agevole ricercare la soluzione dei problemi affrontandoli, caso per caso, in un’ottica circoscritta allo specifico ambito. Chi parla di economia spesso ignora ambiente, cultura, tessuto sociale ecc., e non si preoccupa delle conseguenze che la soluzione ottimale individuata in ambito economico possa avere negli altri ambiti.
Non meraviglia pertanto che l’essere umano non sia più considerato nella sua unità indivisa, ma che di esso siano presi in considerazione, di volta in volta, gli aspetti utili alla trattazione di particolari problematiche. I bisogni della gente considerati in una tale ottica diventano fra loro contraddittori e non più componibili per elaborare alcun progetto politico coerente. Se la politica si appiattisce sull’economia, o diventa essa stessa una tecnica, tradisce i suoi compiti e finirà per dissolversi.
E ciò sta già accadendo.
Le ideologie sono state messe da parte come inutili ferrivecchi (a parte quella neoliberale ormai diventata pensiero unico), e con esse sono venute meno le visioni del mondo, indispensabili per elaborare progetti per il futuro. Su tutto e tutti, si sono imposti i dettami dei poteri economico-finanziari (o del finanzcapitalismo, come lo ha definito il compianto professor Gallino) ai quali sono proni, senza eccezioni, tutti i governanti dei Paesi sviluppati.
Speriamo che papa Francesco, con la sua voce indipendente dai poteri forti, dia ulteriori scosse al mondo politico affinché si creino le condizioni per intraprendere un nuovo cammino.
E buon 2016 a tutti.


Giuseppe Ladetto - 2016-01-05
Credo di dover dare una risposta ad alcune osservazioni critiche fatte all’articolo. Premetto che mi muovo sempre con difficoltà sul terreno economico, e pertanto interloquire con un economista mi crea un qualche patema. Ma poiché Daniele Ciravegna è un amico (abbiamo lavorato insieme per molti anni in vari ambiti dell’Ateneo torinese), allora posso rispondere senza timore. Sui due primi punti sollevati, probabilmente non mi sono espresso chiaramente nell’articolo. Che i consumatori siano meglio tutelati privatizzando i servizi pubblici o che solo i privati siano capaci di creare efficienza gestionale non è ciò che penso io, ma quanto sento dire quotidianamente a destra e a sinistra, nei dibattiti e nei media. Ho infatti scritto che sono ragionamenti che non mi convincono; e mi ha confortato quanto ha detto in proposito un liberale come Ralf Daherendorf, di cui ho citato le parole. Mi trovo pertanto d’accordo con Ciravegna sul giudizio che dà del settore pubblico e di quello privato. Il terzo punto sollevato è più controverso. L’economia non è una tecnicalità, scrive Ciravegna. Tuttavia, viviamo in un mondo in cui scienza e tecnica sono sempre più collegate ed intrecciate, ed è difficile cogliere i confini che le separano. Però scienza e tecnica non dovrebbero venir confuse. La scienza ha come fine la conoscenza; la tecnica ha come fine l’utile o comunque ha sempre finalità pratiche, applicative, ed è governata dalla razionalità strumentale. L’ingegneria, l’architettura, la medicina ed anche l’economia e il settore giuridico hanno risvolti eminentemente tecnici. Ciò non significa sminuirne il valore, né diminuire la dignità di chi ad esse si dedica. La sempre maggiore complessità dei problemi che dette discipline affrontano richiede degli specialisti, i quali, per necessità, sono portati a spezzare la realtà per rivolgersi a singoli aspetti di essa. Edgar Morin ha scritto che in tal modo si rende di fatto impossibile la comprensione del mondo e si impedisce di cogliere i problemi fondamentali che sono sempre globali. Nel nostro tempo, l’eccesso di specializzazione è diventato un problema perché gli esperti, anche quando molto qualificati, non appena il loro ambito specifico è attraversato da altre problematiche, non sanno più come reagire. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi ma non sono in grado di farlo. Mi permetto di dire che a questa deriva non sfuggono le discipline economiche. Non sarà un caso se, in questi ultimi anni, fra i negazionisti delle modificazioni climatiche di origine antropica, troviamo largamente presenti economisti ed esponenti del mondo economico. Comprendere l’interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee, come ha detto Morin, è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all’abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato.
franco maletti - 2016-01-04
In una società priva di ideologie e di valori, la differenza tra l'essere "amico" o l'essere "nemico" avviene esclusivamente in base all'interesse personale (ed egoistico) di ciascuno. Anche in politica, gli interessi cambiano in continuazione, stimolati dalla creazione ad arte di "momenti emotivi" che portano il singolo a scelte precise quando queste ultime "servono" al raggiungimento dell'obiettivo preposto. Senza rendercene conto, quando entriamo in un supermercato siamo trattati come animali da laboratorio: chi ha costruito il supermercato sa preventivamente come ci muoveremo, quale percorso faremo, quali prodotti dovremo acquistare, quanto spenderemo. Il tutto in una tanto apparente quanto falsa "libertà". Svegliamoci!
Carlo Baviera - 2016-01-01
Concordo in pieno. Ladetto for President!!! Finalmente qualcuno che si oppone, con argomentazioni al pensiero unico e alle scelte di liberalizzazione/privatizzazione generalizzata di questi anni (anche accettata o consentita sia da esponenti del cattolicesimo democratico, che da quelli della sinistra riformatrice). Giustamente si dice "Se un dato assetto economico concorre ad abbassare prezzi e tariffe, ma nel contempo ci rende disoccupati, o ci costringe ad andare a lavorare lontano da familiari e amici, o ancora se peggiora le condizioni di lavoro o l’ambiente in cui viviamo, perché dovremmo privilegiare ciò che ci riguarda come consumatori rispetto a tutti gli altri aspetti della nostra vita? Rilevo, inoltre, ... che i risultati scaturiti sovente non coincidono con le aspettative della gente". Parole sante e che tengono conto dell'orintamento "sociale" di Papa Francesco, unico riferimento (eventualmete) serio per un Partito che voglia essere comunitario e solidale. Buon Anno a tutti
Daniele Ciravegna - 2015-12-30
Primo punto. L'incipit di Giuseppe Ladetto è che, privatizzando i servizi pubblici produttori di beni, i consumatori siano "meglio tutelati", in termini di prezzi che devono pagare per poter usufruire dei servizi pubblici stessi. Non sono d'accordo: poiché si tratta di beni che, per la loro natura, anche per la presenza di forti economia di scala, non possono essere venduti che in mercati di tipo momopolistico o oligopolistico, preferisco un produttore pubblico piuttosto che privato. Il produttore privato, alla fin fine, ha interesse a realizzare profitti, non ad erogare servizi di pubblica utilità alla maggior parte possibile di popolazione, cosa che dovrebbe interessare, invece, al produttore pubblico, che può utilizzare, a tal scopo, anche risorse provenienti dalla fiscalità generale. Si veda che cosa è successo con la privatizzazione delle ferrovie in Italia, Regno Unito ed altri paesi: il gestore privato tende a dirottare le risorse verso le linee che "rendono", riducendo il servizio (fino a farlo cessare) delle linee che non rendono perché hanno, strutturalmente, relativamente meno passeggeri (pardon, "clienti", come dicono le Ferrovie dello Stato privatizzate in Italia!): si veda lo scempio che si è avuto, da noi, nei confronti della linea ferroviaria tirrenica! Quale è il bene della popolazione: avere poche poche linee d'élite (con prezzi elevati, perché i gestori applicano il principio di Veblen, secondo la quale l'alto prezzo è percepito dal consumatore come indicatore di qualità superiore) oppure avere un'ampia rete di linee di trasporto che permetta una diffusa mobilità, anche periferica, e non solo linee ad alta velocità? Secondo punto. E' poi vero che solo i privati sono capaci di creare efficienza gestionale? In prima battuta, l'efficienza sta nella minimizzaziione dei costi per produrre una certa quantità di prodotto, e questo può e deve essere fatto da tutti, a meno che, per definizione, il pubblico sia gravato dall'inefficienza derivante dall'affidare il management delle aziende a persone che non hanno buone capacità manageriali ma, piuttosto, sono politici in carriera o politici a fine carriera, oppure il servizio di trasporto pubblico, ad esempio, debba farsi carico di "oneri impropri" di irizzata memoria (ma allora sarebbero costi per svolgere una finalità multipla...). Tolte di campo queste deformazioni, permane la differenza fra il settore privato, che verosimilmente utilizza efficienza in termini di costi per rimpinguare i suoi profitti, e il settore pubblico che dovrebbe, invece, utilizzare le stesse efficienze per aumentare la mole dei servizi erogati. Di conseguenza, esprimendo l'efficienza, non in termini di attività svolta, ma in termini di efficacia (in questo caso, di mobilità per la popolazione)ed eliminando gli sprechi e nell'una e nell'altra, la via pubblica appare potenzialmente più efficiente di quella privata. Terzo punto. L'economia che sarebbe una "tecnicalità". No, l'economista ha problemi da risolvere riconducibili alla massimizzazione di una funzione obiettivo, in presenza di vincoli. Nella funzione obiettivo possono essere inseriti questioni di carattere culturale, sociale, di ambiente naturale ecc. Se non li inserisce, è una sua deficienza personale, non è un errore di ragionamento economico. Come sempre, non è lo strumento che erra; è l'uomo che può errare, utilizzando male lo strumento! Quarto punto. I miei migliori auguri di Felice 2016 a tutti gli amici popolari e a tutti i lettori di "Rinascita popolare".