Oggi, si assiste al continuo e progressivo massacro della lingua italiana sempre più infarcita di termini anglosassoni a cui si ricorre senza motivo plausibile perché non contrassegnano oggetti o fatti relativamente ai quali la nostra lingua non possegga un vocabolo idoneo, ma che sono utilizzati per sostituire parole della nostra parlata assai più comprensibili e armoniose. Si dirà che ciò è frutto della globalizzazione, della circolazione delle persone e delle merci, della diffusione di film e musica d’oltre oceano. Tuttavia in altri Paesi europei, come Francia e Germania, questo non avviene (o non avviene nella misura di casa nostra): c’è più rispetto per la propria lingua forse perché c’è più rispetto per il proprio Paese e la sua storia.
Quanto accade in Italia è frutto di un provincialismo esterofilo che connota la classe dirigente e soprattutto gli esponenti del mondo politico e dell’informazione. All’origine di questo fenomeno, ci potrebbe essere stata, in passato, anche una reazione alla retorica patriottarda e al virulento nazionalismo del fascismo, con gli esiti devastanti che ha prodotto. Ma, in realtà, c’è a mio parere qualcosa di più profondo. La mancanza di rispetto per la lingua italiana è un segno grave della debolezza culturale e morale del Paese, perché la lingua non è un semplice strumento di comunicazione, ma l’elemento fondamentale che contrassegna un popolo e una nazione. La lingua esprime significati, esperienze e valori condivisi di una cultura. Fin dal Medioevo, la lingua italiana (ancorché usata da una minoranza intellettuale) è stata il segno distintivo del “bel Paese là dove il sì suona”, e la letteratura ha tenuta viva nei secoli l’identità della Nazione.
Accanto al massacro della lingua, si nota il rifiuto del concetto stesso di Nazione.
C’è una crescente avversione nei confronti di tutto quanto si richiama all’appartenenza, all’identità, a un’eredità culturale condivisa. Per una parte significativa dell’élite politica e intellettuale del nostro Paese, e più in generale dell’Europa, il concetto di patria deve far riferimento alla sola Costituzione, alla condivisione delle regole, quando non rifiuta l’idea stessa di cittadinanza nazionale, invocando una cittadinanza transnazionale fondata sull’universalità dei diritti umani. In ogni caso, scompare il concetto di Nazione e rimane solo quello di Stato. È bene ricordare che Stato e Nazione sono cose differenti: lo Stato è una struttura politica; la Nazione una realtà storico-valoriale.
Oggi, in particolare la parola identità suscita un rigetto e un’avversione quasi che questo concetto implichi una sorta di appartenenza comunitaria oppressiva e liberticida. Soprattutto ci dicono che identità è termine che mirerebbe a escludere gli altri, sancirebbe l’esistenza di “diversi”, di “stranieri”. Quindi l’identità sarebbe un riferimento reazionario dietro al quale si celano xenofobia e razzismo.
Ma ogni termine, ogni categoria di pensiero, ogni valore (nessuno escluso), se preso unilateralmente e assolutizzato, può condurre a esiti negativi ed addirittura diventare un idolo nefasto. Ad esempio, la Nazione può scadere a nazionalismo, la famiglia a familismo, l’uguaglianza a egualitarismo, la libertà a licenza o a irresponsabilità, i diritti a negazione dei doveri. Ma è assurdo buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ogni riferimento valoriale va bilanciato con altri valori nella ricerca di un giusto equilibrio.
Anche in seno al mondo cattolico, si tende talora a contrapporre a ogni appartenenza l’esser membri dell’unica “famiglia umana” o di una “comunità universale”. È ovvio che il Cristianesimo (come l’Islam), essendo una religione universale, rivolga il suo messaggio a tutta l’umanità. E certamente tutti dobbiamo riconoscerci come esseri umani e, come tali, dobbiamo rispettarci senza avvalorare alcuna gerarchia di etnia, razza, cultura o altro. Ma ciò non vuol dire l’annullamento delle varie appartenenze fondate su percorsi storico-culturali. Il mondo infatti non è popolato da individui astratti, interscambiabili, sconnessi da una determinata cultura e dai luoghi in cui questa si è sviluppata. Tutti apparteniamo all’umanità, ma sempre come membri di una definita cultura ed eredi di una storia particolare.
Se non si tiene conto di ciò, si cade nel cosmopolitismo. Quasi due secoli fa, Giacomo Leopardi, attentissimo osservatore dei fenomeni sociali, scriveva in polemica con il cosmopolitismo illuminista: “Ed ecco un’altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria... L’effetto è stato che in fatti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gl’individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante patrie quanti sono gl’individui, e la riunione universale promossa dall’egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale”.
Il cosmopolitismo è quindi l’altra faccia dell’individualismo più spinto ed egoistico. L’uno alimenta l’altro. Entrambi portano acqua a quella globalizzazione che, per fare del mercato l’unico riferimento, mira a omologare tutto. Ma non dimentichiamo che la pluralità delle culture (la quale richiede, per l’esistenza di ciascuna, una dimensione collettiva e non individuale) è l’equivalente, in ambito sociale, della biodiversità in ambito naturale. Tutte e due rappresentano un’esigenza vitale. Jeremy Rifkin (che con i suoi vari libri ha dimostrato di saper vedere lontano) scrive, in L’era dell’accesso, che “i movimenti più importanti del ventunesimo secolo saranno quello per la conservazione della diversità biologica e quello per la salvaguardia delle differenze culturali”, entrambe minacciate dalla globalizzazione. È quindi non solo sbagliato, ma assai pericoloso non comprendere la distinzione fra universalismo e cosmopolitismo.
Il sentimento di appartenenza, che si salda a quelli di radicamento e di identità, è essenziale per realizzare quella integrazione etico-politica senza la quale nessuna società può esistere. È quanto ci dice lo stesso Catechismo (edizione del 1999) definendo la società “un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuna di loro. Assemblea insieme visibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire”. Nella definizione del catechismo una società esiste se tenuta insieme da un principio spirituale che dura nel tempo oltre l’esistenza dei suoi membri. Di tale principio è parte fondamentale l’eredità di chi ci ha preceduto, quell’eredità che ci fornisce le caratteristiche identitarie su cui costruire il futuro: sono la cultura condivisa, le tradizioni e la memoria storica che alla società danno forma, struttura e coesione, e che possono unicamente sussistere in una collettività, di adeguata dimensione, ancorata a un territorio.
A una comunità che ti fa erede di talenti e di mezzi, si appartiene; nei suoi confronti si hanno responsabilità e doveri.
In polemica con i fautori del “patriottismo costituzionale” (che vogliono fare della Nazione una costruzione giuridica avulsa da ogni eredità storico-culturale), ha scritto Ernesto Galli della Loggia che “le società esistono solo quando un gruppo di uomini e donne sentono di avere un vincolo comune che li lega e li tiene insieme perché è connesso a qualcosa che culturalmente, emotivamente, sentimentalmente vive in ognuno di loro”. E ha aggiunto che “le società non esistono perché hanno una costituzione, e che la migliore tavola immaginabile di diritti e di istituzioni non basta a formare una società”.
Destano preoccupazione i risorgenti nazionalismi (in Europa il fenomeno investe soprattutto i paesi ex satelliti dell’URSS), le rinate guerre tribali alimentate dal fondamentalismo religioso, e le chiusure prodotte da insicurezza e perdita di riferimenti. Ma non si combattono questi mali additandone come causa il mancato sradicamento delle identità storico-culturali ancora presenti in larga parte dell’umanità. Esiste, infatti, la strada della collaborazione, della ricerca di più equilibrati e responsabili rapporti tra le Nazioni e tra le comunità, senza passare per la negazione delle appartenenze e delle identità. Edgar Morin (sociologo francese, considerato uno dei più profondi pensatori del nostro tempo) scriveva già negli anni Novanta, quando prendeva piede il fenomeno delle “piccole patrie”: “Non dobbiamo più opporre l’universale alle patrie, ma legare concentricamente le nostre patrie, familiari, regionali, nazionali, europee, e (senza snaturarle) integrarle nell'universo concreto della patria terrestre".
La globalizzazione, con l’abolizione di ogni confine, ha contribuito a determinare questa modernità liquida in cui i legami interpersonali si affievoliscono sempre più: infatti, la forza di tali legami si indebolisce al crescere della dimensione delle comunità in cui viviamo, o per dirla ancora con le parole di Giacomo Leopardi “quanto più l’amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia”. Così le appartenenze si dissolvono una dopo l’altra, e ormai la minaccia investe la famiglia vera e propria, considerata da molti un ostacolo alla realizzazione di se stessi in un’ottica di estremo individualismo.
Eppure, non dovremmo dimenticare che per dare risposte alle molte crisi – ciascuna delle quali è parte della crisi complessiva di un sistema economico-sociale che non regge più – occorre un impegno arduo, di lungo periodo, che richiede un forte sentimento collettivo di appartenenza e di destino, del tutto incompatibile con il dominante individualismo cosmopolita. |