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La Finanziaria tra Totò e Sordi
 
di Alessandro Risso
 

Siamo alle battute conclusive del dibattito sulla Legge di stabilità 2016. Ne parliamo prima che il Parlamento voti il testo definitivo, ma i provvedimenti sono ormai delineati. E poi, dopo tutto, a ottobre se ne è parlato per una settimana senza che il testo ufficiale fosse neppure stato ancora presentato, solo sulla base di annunci condensati in poche slide contenenti titoli e slogan. Possiamo permetterci qualche considerazione.

Il più importante documento di bilancio dello Stato è stato costruito dal Governo con l’intento di accompagnare e favorire le ripresa dei consumi e della produzione. La parola d’ordine veicolata quotidianamente da Renzi è “fiducia”. Il premier è giustamente convinto che la fiducia sia il fattore indispensabile per riavviare consumi e investimenti. Tutti gli studi della Banca d’Italia e di altri osservatori concordano nel ritenere che anche negli anni della crisi il risparmio degli Italiani sia aumentato, ma è rimasto improduttivo, come se fosse nascosto nel materasso. Ci sono decine e decine di miliardi da rimettere in circolo, e la molla per spendere passa da quel prerequisito essenziale che è la fiducia nel futuro. I timori generati dal terrorismo purtroppo non aiutano a ritrovarla, ma questo è un altro discorso. Renzi centra quindi l’aspetto oggi più rilevante, anche se un eccesso di trionfalismo a ogni minimo segno di ripresa rischia di aumentare la diffidenza invece che dissiparla.
La Finanziaria (non si chiama più così, ma ci capiamo) per il 2016 nelle intenzioni del Governo vuole essere quindi uno strumento per iniettare fiducia nel sistema. Anche a costo di aumentare il debito, attirandosi così i rilievi critici della Corte dei conti e dell’Unione Europea. Guido Gentili sul “Sole24ore” ha affermato che alla base della Legge di stabilità vi è “una scommessa politica fondamentale: che il PIL cresca e che il debito pubblico diminuisca”. Per questo si comprendono anche le parole del ministro Padoan, secondo cui gli interventi previsti nella manovra economica “vanno valutati nel loro insieme”. Se gli dessimo retta, potremmo finire qui l’articolo, con la speranza fideistica che la scommessa si vinca. Però qualche valutazione politica sui principali provvedimenti – alla luce della nostra sensibilità e cultura – merita di essere fatta.

Per evitare di essere accomunati ai novelli Totò che criticano “a prescindere”, una tipologia di detrattori che si aggiunge ai “gufi” perplessi sulle “magnifiche sorti e progressive” evocate dalla narrazione renziana, partiamo subito con una serie di misure su cui il giudizio è del tutto positivo: l’allentamento del patto stabilità ai Comuni per la realizzazione di opere pubbliche, di fatto bloccate negli ultimi anni; la riduzione a 100 e poi 95 euro del canone RAI, pagato direttamente nella bolletta dell’energia elettrica per ovviare alla diffusa evasione, realizzando in concreto il principio di “pagare tutti per pagare meno”; le semplificazioni e le agevolazioni per chi lavora con partita IVA; la prevista riduzione da 8000 a 1000 delle Società partecipate dagli Enti locali; il mantenimento delle detrazioni per ristrutturazioni edilizie e risparmio energetico; la conferma degli incentivi per le nuove assunzioni, pur se ridotti a 4800 euro nel 2016 e a 2000 euro nel 2017.
Aspetti positivi si possono trovare anche nel taglio dell’IRES, l’imposta sui redditi delle società, dal 27,5 al 24% dal 2017 e nei cosiddetti “superammortamenti”, che permettono di detrarre non il 100% ma addirittura il 140% sugli investimenti strumentali. E come aiuti alle imprese aggiungiamo anche l’abolizione dell’IMU sui fabbricati produttivi con macchinari “imbullonati” e dell’IMU agricola. Le imprese ricevono quindi degli sgravi concreti che non vanno però a toccare la tassazione sul lavoro, troppo alta in Italia anche a giudizio dell’Unione Europea. I vantaggi per gli imprenditori non si indirizzano perciò sull’ineludibile esigenza di creare nuova occupazione. Questa lacuna, nel Paese che fonda la sua Costituzione sul lavoro, e per un Governo che dovrebbe essere di centrosinistra, è da sottolineare.
Altre critiche alla Legge di Stabilità vengono da chi giudica insufficienti i fondi per il Sud, per la sicurezza, per il contrasto alla povertà, per la sanità. Qui siamo nell’eterno gioco delle parti, ed è difficile individuare la giusta misura quando la coperta è comunque corta. Dopo le stragi di Parigi è ipotizzabile che qualche risorsa in più per le Forze dell’Ordine possa essere trovata, vedremo a discapito di cosa. Prendiamo poi atto che una cifra molto modesta arriva dalla spending review: più il tempo passa, più aumentano i Commissari che gettano la spugna, più diminuiscono i risparmi tanto sbandierati.

E siamo giunti ai provvedimenti più contestati.
Cominciamo dall’abolizione della tassa sulla prima casa. Ricordare che si tratta di un cavallo di battaglia di Berlusconi è superfluo. Nella prima versione illustrata da Renzi si trattava persino di una abolizione totale, compresi castelli e villoni, che neppure il cavaliere aveva osato proporre. Poi, per smorzare le polemiche, nella bozza sono state depennate le abitazioni di lusso, come aveva già fatto l’ultimo Governo di centrodestra. In un Paese in cui circa l’80% delle famiglie sono proprietarie della casa in cui vivono, è comprensibile che questa decisione venga presa per trovare del facile e diffuso consenso. Se il partito di Renzi perde simpatie a sinistra, è parimenti comprensibile che cerchi di compensarle allettando fasce disperse di elettorato berlusconiano. Sono scelte di questo tipo che danno fondamento a chi intravede un nascente “Partito della Nazione”.
Per coloro che credono nel ruolo delle Autonomie locali (e qui i Popolari dovrebbero essere in prima fila), abolire le tasse sulla casa è uno sbaglio grave. Non solo perché si sottrae ai Comuni una fetta importante dell’unica fonte di finanziamento loro rimasta, dato che il premier si è preoccupato di promettere che le Amministrazioni locali riceveranno trasferimenti equivalenti al gettito delle tasse abolite. Ammettiamo che sia vero e che non si riveda un film già visto di recente. Ma ai Comuni si toglie autonomia impositiva, li si rende nuovamente dipendenti dai trasferimenti statali e non responsabili della loro politica fiscale. Siamo agli antipodi del percorso che Prodi promosse nel 2006 per il passaggio del catasto ai Comuni – propedeutico all’autonomia impositiva – poi affossato da Berlusconi mentre la Lega pasticciava senza costrutto con il suo vuoto federalismo fiscale. Applicando il principio di sussidiarietà, nessuno meglio del Comune è in grado di conoscere la propria realtà immobiliare e calibrare le tasse sulle abitazioni. E ogni sindaco sa bene che ad aliquote alte devono corrispondere servizi efficienti e spese in opere di riconosciuta utilità, pena la perdita del consenso e la mancata rielezione. Ma questo obiettivo di responsabilizzazione dei Comuni soccombe di fronte al sempre più marcato centralismo.
Con argomentazioni simili e altre più tecniche, Unione Europea, Corte dei Conti e Banca d’Italia hanno espresso il loro dissenso. Ma Renzi va per la sua strada, spinto da motivazioni politiche che superano ogni altra considerazione.

Provvedimento altrettanto sbagliato è l’innalzamento della soglia per acquisti in contanti da mille a 3000 euro. Critiche sono arrivate da molteplici parti: oltre che da sindacati, associazioni consumatori, sinistra PD, ricordiamo anche il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi e il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. Con ruoli e parole diversi, che possiamo riassumere nella conclusione di un approfondito articolo sull’argomento di due economisti napoletani (Giovanni Immordino e Francesco Flaviano Russo, L’evasione paga in contanti)pubblicato da www.lavoce.info: “Crediamo che l’innalzamento del limite all’uso del contante potrà portare a un aumento dell’evasione e, soprattutto, che sia un segnale di scarso impegno nella lotta ai fenomeni evasivi e al riciclaggio. Una politica che l’Italia certamente non può permettersi”. Per analogia possiamo estendere il giudizio a un provvedimento meno noto, l’abrogazione della norma che obbligava la tracciabilità dei pagamenti per i canoni di affitto. Adesso, che sia un altro tassello per costruire il Partito della Nazione o che sia un pezzo della “strategia della fiducia” perseguita ossessivamente da Renzi – “spendete, non importa come, ma spendete”, sembra dire – si tratta di un palese incoraggiamento ai "furbetti del nero". Per dirla con Cantone, “la lotta all’evasione ha bisogno di una stabilità normativa, di scelte chiare e continue, non di sali e scendi”. Sulle montagne russe deve essere salito anche il ministro Padoan, che esattamente un anno fa riteneva il limite al contante “motivato dall’esigenza di far emergere l’economia sommersa e aumentare la tracciabilità delle movimentazioni per contrastare il riciclaggio di capitali di provenienza illecita, l’elusione e l’evasione fiscale”. Complimenti per la coerenza.
Quindi, più del Totò evocato da Renzi per mettere in ridicolo i suoi critici, si potrebbe parlare di un Governo che insegue la ripresa dei consumi a qualunque costo, anche vellicando i vizi dell’Italietta così ben rappresentati da tanti indimenticati personaggi di Alberto Sordi. Quei vizi che hanno contribuito in modo determinante alla crisi morale, sociale ed economica del nostro Paese. E che vanno estirpati se vogliamo davvero un futuro migliore.


Domenico Bonino - 2015-11-20
Da quello che ho letto e capito sulla legge finanziaria mi sembra un articolo equilibrato che condivido in pieno. Mi pare incredibile che il Pd cavalchi oggi le proposte di Berlusconi che aveva combattuto per anni ma sono decisioni politiche prese per arrivare al partito della nazione, con buona pace di Bersani e tanti altri.
giorgio merlo - 2015-11-19
Posso dirlo con franchezza? Avrei enormi difficoltà e fare rilievi critici a questo articolo di Alessandro. Preciso, puntuale e politicamente coerente. Sul giudizio politico della legge di stabilità, del resto, non servono nè i "cortigiani" in servizio permanente e nè gli eterni e pregiudiziali critici. Per fortuna, in un contesto politico sempre più beota e conformista, c'è ancora qualcuno che mantiene la "schiena dritta". Come ci insegnava sempre e comunque Donat-Cattin.