Pubblichiamo, riprendendo un articolo di “La Repubblica” del 31 ottobre scorso, parte della lezione di congedo tenuta a Bologna da Ivano Dionigi che dopo sei anni lascia la carica di rettore di quella Università, di cui è anche professore ordinario di letteratura latina. “La lezione del latino” è il titolo del suo intervento, pronunciato come saluto alla città e incentrato su cosa ereditiamo dalla lingua di Cicerone: il primato della parola, la centralità del tempo e la nobiltà dell’agire per il bene comune. Un immergerci nella cultura che vi offriamo alla lettura.
Il latino mi ha insegnato che la parola, il “verbum”, è materia prima: come la pietra, il carbone, il ferro; alla parola tutto è possibile, ammoniva Gorgia: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. La parola “educa”, “affascina”, “convince”: i tre compiti che le affida la retorica classica. Lingua in apparenza familiare, il latino è caratterizzato da parole cariche di una pluralità di sensi, come al centro di un campo magnetico: chi saprebbe tradurre con una parola sola voci come otium, dignitas, pietas?
Lingua duttile ma severa, impegnativa e impegnata, che determina le sorti della politica, della res publica: quando si affermano “i più bravi parlatori”, i comunicatori da quattro soldi, i demagoghi, allora è la rovina. Ce lo insegna Cicerone: «Quando vedo la crisi della nostra repubblica, constato che non piccola è la parte di rovina procurata dagli uomini più bravi a usare le parole (disertissimi homines)».
Il disertus, l’abile parlatore, contrapposto all’eloquens, “colui che parla bene, per bene, in modo etico”, distinto dal loquens, “colui che parla”: tutta la differenza – non solo linguistica ma anche etica e politica – sta in quel fonema “e”, che perfeziona e nobilita l’azione del parlare. Come vedere il grande nel piccolo: anche questo è un dono del latino.
Noi oggi abbiamo bisogno – non meno dell’ecologia ambientale – di una ecologia linguistica, che ci faccia riscoprire la differenza tra vocaboli e parole portatrici di senso e di verità, alle quali pertanto – al pari delle persone – non si può torcere il collo. Pensiamo alla parola “competere” che nella sua origine di cum-petere non ha nulla di sgomitante, muscolare, darwiniano, bensì significa “dirigersi insieme nella stessa direzione”, “correre insieme verso la stessa meta”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente – diceva Platone – non solo è una cosa brutta in sé, ma fa male anche all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le parole-vocabolo smarriscono la loro capacità e identità comunicativa. Abitudine antica, questa, se pensiamo all’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “ impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)».
Il latino mi ha insegnato la centralità del tempo. A Roma tutto è nel segno del “qui e ora” (hic et nunc) e “nel segno del tempo” (sub specie temporis)”: una temporalità che impronta l’arte nella sua cifra descrittiva, il diritto nella sua genesi ed evoluzione collettiva, la religione nel suo legame con i ritmi delle stagioni e con le tappe della vita, il destino stesso di Roma bipartito tra il prima e il dopo della sua fondazione (ante e post urbem conditam).
Ma è nella lingua che la dimensione del tempo risulta più evidente e convincente: lingua verbale, la latina, perché tutta incentrata sul verbo, «angelo del movimento che dà spinta alla frase», come lo definiva Baudelaire. Lo vediamo nella sintassi: la maledetta consecutio temporum di memoria ginnasiale non è forse la più conclamata applicazione di questa ferrea legge del tempo? D’altra parte, alla frase gerarchica di Cicerone, espressione e riflesso dell’equilibrata età repubblicana in cui i vari ordines si coniugavano in pur difficile convivenza, subentrerà la sententia di Seneca, vale a dire la frase breve, staccata, acuminata, tutta costruita su antitesi e simmetria: segno della frattura che si era creata con la fine della Repubblica.
Questo acuto senso del tempo era connaturato a un popolo che faceva della “tradizione” la propria religione principale: perché, secondo il felice aforisma di Gustav Mahler, «la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». Una civiltà, quella romana, che, grazie a questo culto e a questa forza del servare, rispetterà e assimilerà tutte le altre civiltà conquistate dalle aquile imperiali.
Noi siamo naturaliter storia e memoria, e natura non facit saltus.
Chi stacca la spina della storia e della memoria ha una sola alternativa: essere ignorante o suicida.
Il latino mi ha insegnato la nobiltà della politica. La lingua latina manifesta il carattere pragmatico di quel popolo che definiva la rivoluzione con res novae (“avvenimenti inauditi”) e la storia con res gestae (“opere compiute”). Tra tutte le espressioni in cui ricorre la frequentissima e latinissima parola res, quella che mi ha dato sempre più a pensare è res publica: “la cosa pubblica, la proprietà comune, il patrimonio di tutti”.
Questa res publica esige come primo valore la virtus, che non significa “virtù” ma “impegno”; quell’“impegno” che trova il suo esercizio più compiuto nel “governo della città” (gubernatio civitatis).
Roma segna inequivocabilmente il primato della politica sulla vita dell’individuo. L’uomo romano è prima di tutto cittadino, civis; il suo modello è Enea, il quale subordina e sacrifica le esigenze personali, l’amore per Didone, alla vocazione politica, la fondazione di Roma.
E questa virtus del civis verrà ricompensata, perché la politica rappresenta l’espressione più nobile dell’uomo. Lo apprendiamo nel ciceroniano Sogno di Scipione, dove si dice che a tutti coloro che avranno esercitato l’arte della politica a favore della patria e del bene comune è assicurato un posto in cielo.
Ma questo latino riguarda solo il filologo classico, o tutti noi?
Il latino non è né un reperto archeologico, né uno status symbol, né un mestiere per pochi sopravvissuti; e neppure una materia; il latino è un problema, in senso etimologico; è una sorta di “pietra di inciampo” che riguarda tutti noi: non solo perché matrice della nostra lingua, non solo perché segno della cultura della nostra Europa che ha ininterrottamente parlato latino fino a tutto l’Ottocento per il tramite della Chiesa, dell’Impero e della Scienza, ma anche perché strumento e veicolo della trasmissione e dell’eredità del sapere di Atene e Gerusalemme: della sapienza classica e giudaico-cristiana. Come dire: la lingua latina oggi non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad essa.
De nobis fabula narratur: questo racconto parla di noi. |