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USA maior, minor Europa
 
di Giuseppe Ladetto
 

Meraviglia la mancanza di discussione sulle questioni fondamentali di politica internazionale. Certo si parla molto di Europa, ma mi permetto di dire che tutto ciò che la riguarda non può più (in un percorso unitario ancorché difficoltoso) essere considerato un tema di “politica estera”. L’estero ormai è quanto sta fuori dell’Europa, e qui di fronte a uno scenario sempre più inquietante, ci si limita a denunciare le minacce più evidenti, senza un’analisi dei fatti e delle loro cause, senza affrontare le possibili opzioni da intraprendere.

La prima questione, quella da cui discendono tutte le altre, riguarda il mondo verso cui stiamo andando o che vogliamo: un mondo multipolare o un mondo unipolare?
Mi pare evidente che gli Stati Uniti (la “nazione eccezionale”, la “nazione indispensabile”, come hanno detto vari Presidenti americani) agiscano in ogni ambito internazionale avendo sempre come primo obiettivo quello di mantenere la condizione di unica potenza di respiro globale, per imporre ovunque possibile la propria leadership, la propria visione, il proprio modello di sviluppo e i propri interessi. Dopo il crollo sovietico, scrive Emmanuel Todd in Dopo l’impero, l’America ha creduto di poter estendere la propria egemonia all’insieme del pianeta. Consapevole di non possedere più il primato industriale e tecnologico di un tempo, per realizzare la sua aspirazione egemonica si è vista costretta a fare assegnamento essenzialmente sulle armi. Di qui l’enorme spesa americana in questo ambito (più del 40% della spesa planetaria), una spesa alla quale si aggiunge quella dei molti alleati. Per rendere lo strumento bellico funzionale e credibile come deterrente, gli USA, scrive Todd, devono periodicamente esercitare un’azione militare sull’universo delle non-potenze. È questo il denominatore comune delle molte iniziative militari americane di questi ultimi decenni, al di là delle differenti motivazioni fornite per ciascuna.
Questa linea di condotta è approvata dai molti che considerano l’America il campione dei valori liberaldemocratici, in scena sul palcoscenico mondiale ogni qual volta c’è da sconfiggere il cattivo di turno. Ci sono, inoltre, coloro che vedono in una vasta area planetaria egemonizzata dagli Stati Uniti (l’Occidente) la riproposta, nel tempo attuale, di ciò che fu Roma nel mondo antico, quella Roma che conquistò i Paesi prossimi al Mediterraneo, unificandoli e facendone una patria sola. Così oggi gli Stati Uniti compierebbero un’analoga impresa a livello planetario, e anche fra quanti non appartengono a questa nazione c’è chi, in cuor suo, già si sente potenzialmente cittadino di questo mondo americano.
Ma, scrive John Mearsheimer – docente di scienze politiche dell’Università di Chicago – nel volume La logica di potenza, gli USA, pur essendo da più di un secolo la potenza egemone nell’emisfero occidentale, non possono raggiungere l’egemonia globale perché, per conseguirla, uno Stato deve disporre di una netta e incontrastata superiorità nucleare su ogni altro Paese. Non essendo al momento verificatasi una tale condizione, gli USA, per mantenere l’attuale superiorità, cercano di impedire che si creino egemonie regionali in altre parti del mondo. A tale fine, gli USA attivano e/o appoggiano potenziali Paesi antagonisti di qualunque Stato che miri a una posizione di primato in un’area del globo, e intervengono direttamente quando i momentanei alleati in loco risultino incapaci di attuarne il contenimento. Quanto accade in Ucraina è emblematico di tale condotta.
Hanno così assunto a livello globale quel ruolo di “bilanciatore esterno” che in passato, nel quadro europeo, è stato proprio dell’Inghilterra, la quale, sulla base del “divide et impera”, impedì in tempi successivi a varie potenze europee di conseguire una posizione di predominio continentale. Tuttavia in questo ruolo, sono evidenti la crescente difficoltà, il pesante costo e gli insuccessi dell’impresa americana, che si rivela inoltre velleitaria e pericolosa in un mondo sempre più articolato e complesso, ormai destinato dai fatti a diventare multipolare con la formazione di potenze nelle varie macroregioni planetarie (Cina, India, Indonesia, Brasile, Russia e, malgrado se stessa, Europa ed altre ancora). Di qui, il periodico emergere in seno alla società americana di posizioni isolazioniste, una tendenza che si ripropone ogni qual volta si avvertono le difficoltà e gli oneri che comporta l’uscire fuori dalla fortezza continentale nord atlantica per intraprendere avventure in Paesi lontani.
A fare queste considerazioni non sono solo gli “antiamericani di professione” (come si suole dire di chiunque non valuti favorevolmente un mondo unipolare). Ci sono molti che pur apprezzano aspetti della cultura e della società americana, e ci sono anche non pochi eminenti cittadini americani. È quanto, ad esempio, sostiene Henry Kissinger nel suo recente libro World Order, auspicando che America, Russia, Europa, Cina e le nuove potenze emergenti, di fronte al rischio di nuove devastanti guerre, comprendano la necessità di dare vita a un vero ordine mondiale fondato su un insieme di regole condivise e su un equilibrio tra le potenze.
Anche il mondo politico italiano, come quello europeo, dovrebbe pronunciarsi in materia per definire strategie politiche di lungo periodo che tengano conto dei nuovi equilibri e dello spazio in essi occupabile dal nostro Paese e dall’Europa.

Un altro quesito fondamentale discende dal precedente. Tutti i responsabili delle istituzioni nazionali ripetono sempre che i due riferimenti per definire la rotta della nostra politica estera sono l’Europa (in vista della sua unificazione) e l’alleanza atlantica, garanzia di difesa e di stabilità internazionale. Qui il quesito è: sono due riferimenti compatibili?
Faccio presente che, fra le potenze regionali delle quali gli USA contrastano l’affermazione (come scrive Mearsheimer), c’è anche un’Europa unificata. Uno degli ultimi editoriale di Barbara Spinelli su “La Stampa” era intitolato Questo matrimonio europeo non s’ha da fare, né domani, né mai. E se la parte di don Abbondio spettava alla Commissione Europea, quella di don Rodrigo era interpretata dal governo americano con tutta l’élite politica ed economica del Paese. Questo atteggiamento verso l’Europa non appartiene alla sola destra neoconservatrice americana, come adombrava la Spinelli, ma a tutto l’establishment statunitense perché c’è sempre continuità nelle direttrici di fondo della politica estera di tutti i grandi Paesi.
Si dirà che a determinare lo stallo del processo unitario europeo, molte sono le responsabilità delle classi dirigenti dei Paesi europei. Certamente ce ne sono molte, ma, per restare in clima manzoniano, i Paesi europei sembrano i polli di Renzo: si beccano l’un l’altro perché costretti in uno spazio decisionale soffocante, non potendo metter parola su tutte le grandi questioni da cui dipende il futuro.
L’Europa dei sei, quale primo nucleo di un possibile Stato europeo, in tempi di forte contrapposizione fra est ed ovest, è stata tollerata dagli Stati Uniti perché utile per fronteggiare l’URSS. Ben presto, l’ingresso, di nuovi Paesi, fra i quali il Regno Unito (che non aveva e non ha alcuna intenzione di partecipare a una costruzione federale), sollecitato dagli USA, non ha solo ampliato lo spazio europeo, ma lo ha trasformato da nucleo di un progetto politico in un’area di libero scambio. L’ulteriore allargamento dell’UE ai Paesi dell’est (fortemente imbevuti di nazionalismo), sempre sollecitato dagli USA, ha reso sempre più difficile il cammino unitario. E oggi a perorare l’ingresso nella famiglia europea della Turchia sono ancora gli Stati Uniti, sempre allo scopo di diluire il contenuto politico della Comunità.
L’eventuale approvazione del TTIP, fortemente voluta dalla sponda nord atlantica, definita una NATO economica, darebbe una sorta di colpo di grazia al progetto di una Europa politica. Gli Stati Uniti, infatti, pur nell’ambito di una più generale alleanza, intendono mantenere relazioni bilaterali sul piano militare e politico con i singoli Stati europei; non vogliono confrontarsi con un soggetto unitario che sarebbe un interlocutore di peso pari al loro. Siamo sempre al “divide et impera”.
Altro quesito collegato ai precedenti riguarda quel sistema economico di matrice anglosassone, fondato sullo strapotere del capitalismo finanziario e sulla massimizzazione del profitto a breve, che dà luogo a una crescita distorta e predatoria. L’adesione a questo sistema è compatibile con la ricerca di uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e con un più equilibrato rapporto con il Sud del mondo nell’utilizzo delle risorse? Quest’ultimo aspetto costituisce un obiettivo indispensabile per l’Europa che altrimenti si troverebbe a misurarsi con flussi immigratori ingestibili. È innegabile che oggi sia il capitalismo di marca anglosassone a dettare il cammino di tutti i Paesi dell’area occidentale. Solo prendendo le distanze da questo modello sarà possibile individuare percorsi alternativi.
Si ribatte che un Paese come il nostro non ha peso per sottrarsi a quanto dettato dalla superpotenza, e che nel quadro internazionale a contare sono solo i rapporti di forza. Ricordo che, in piena guerra fredda, ci fu Enrico Mattei che, sfidando le “sette sorelle”, seppe realizzare strategie in campo energetico rispondenti alle esigenze del Paese e a una maggiore equità nei rapporti con i paesi detentori delle materie prime. Ci fu Giorgio La Pira, che, da semplice sindaco di Firenze, seppe lanciare dei messaggi al mondo intero. In Italia e in Europa, ci vorrebbe più coraggio. L’Europa non può lasciare agli USA il ruolo di garante dell’equilibrio mondiale, perché in tal modo continuerebbe a non avere alcuna voce nelle grandi questioni prossime venture quali crisi climatiche, conflitti, lotta al terrorismo, distribuzione delle risorse, immigrazione e via dicendo. Ad esempio, già oggi (come ha scritto Maurizio Molinari su “La Stampa”), l’America si sente sostanzialmente estranea alla guerra contro l’ISIS, e non ritiene un suo compito occuparsi di quanto accade in Libia; nel contempo, in funzione dei suoi interessi strategici, chiede perentoriamente agli europei di attivarsi per contrastare la Russia di Putin e gli interessi globali di Pechino.

Il mondo multipolare, verso cui siamo comunque avviati, non sarà certo una felice valle dell’Eden. Navigare in esso richiede appunto coraggio, comporta l’assunzione di responsabilità (anche in ambito militare), significa fare sacrifici a cui non siamo più abituati. Il primo passo da intraprendere (come ha detto Monica Canalis in un commento ad un articolo) riguarda la realizzazione di una comune difesa europea perché senza di essa l'Europa è debole. Una politica di difesa comune sarebbe un passo importante verso una sovranità reale e farebbe anche risparmiare i Paesi europei, che singolarmente presi spendono molto per la difesa senza avere in mano uno strumento efficace, utilizzabile in autonomia. Un tale passo non contrasta con la ricerca di soluzioni pacifiche per i molti conflitti in atto, ma anzi ne favorirebbe la soluzione quando tesa a creare un più equilibrato ordine internazionale.


Andrea Griseri - 2015-08-24
Sono tornato da un viaggio a S.Pietroburgo: ho trovato un paese carico di aspettative, impaziente, patriottico. La politica USA intesa per interessi petroliferi e non solo (il bisogno di picchiare la sagoma dell'antico nemico?)a sottrarre alla Russia il suo lebensraum negandone non solo le ambizioni ma anche la necessità vitale di essere leader nel quadrante eurasiatico è fallimentare e pericolosa; l'Italia ha sempre, anche negli anni duri del comunismo , fatto da ponte fra Est e Ovest ( sarebbe da ripubblicare il libro di Andreotti l'URSS vista da vicino) e oggi? Silenzio assordante anche in questo caso?
Carlo Baviera - 2015-07-10
Sono questi gli argomenti base (anche se non i soli) per una proposta politica che rappresenti una vera svolta, e che sottragga ai poteri cosiddetti forti (economici,finanziari, militari, culturali) dell'occidente liberista. Ma l'attuale classe dirigente di cento - sinistra o non ne è all'altezza, oppure non vuole il cambiamento e si adegua a "fare i compiti a casa" imposti dalle istituzioni internazionali e dalla visione che mi pare Ladetto critichi.