Se volessimo dire oggi una parola di sinistra, quale sarebbe? Ovvero, se dovessimo delineare la principale o una delle principali missioni della sinistra, quale indicheremmo?
Volgendo l’attenzione a vecchie e nuove riflessioni (Sen, Stiglitz, Piketty ecc.) direi, senza ombra di dubbio, la lotta alla disuguaglianza. Salvo poi dover constatare che le azioni poste in essere da componenti che si richiamano alla sinistra portano all'aumento delle disuguaglianze, tradendo l’assunto di partenza.
Intanto constatiamo che, nell'area genericamente riconducibile alla sinistra, troviamo posizioni diversificate negli assunti e soprattutto negli esiti. Per una sinistra sindacal-massimalista, l’obiettivo della lotta alla disuguaglianza è conseguire il massimo di ugualitarismo. Le parole d’ordine sono diritti, tutele e garanzie per tutti: i capaci e gli inetti, gli impegnati e gli ignavi, i volenterosi e i fancazzisti. Il mantra sessantottino punta “all'uguaglianza dei punti di arrivo”, che necessariamente si collocano molto in basso, sia per i predetti interessati, sia per i destinatari della loro attività. Infatti è difficile – salvo che per la coscienza personale – che i primi (i capaci, i volenterosi, gli impegnati) trovino incentivi a rimanere tali. Così come è difficile che, in assenza di disincentivi, gli inetti, gli ignavi e i fancazzisti siano indotti a desistere dall’essere tali. Parole come merito, responsabilità, selezione, competizione sono in questo ambito orride bestemmie, frutto del capitalismo globalizzato.
In un’altra ottica, diciamo di sinistra riformista, quella a più forte storia e tradizione europea, la lotta alla disuguaglianza è sì al vertice delle preoccupazioni, ma con strategie volte alla riduzione delle disuguaglianze individuali, territoriali, intergenerazionali. L’obiettivo principe è l'einaudiana “uguaglianza dei punti di partenza”. Le parole d’ordine sono merito, responsabilità, tutela degli svantaggi immeritati. Questo pensiero è a fondamento della ormai ultradecennale costruzione dello Stato sociale.
Al di là delle revisioni e rivisitazioni, al di là degli appesantimenti burocratici, al di là degli abusi perpetrati, le democrazie europee si reggono sulle idee portanti che hanno visto nel Welfare State la “istituzionalizzazione della solidarietà” e la “socializzazione dei cinque grandi rischi” (i five Giant Evils del Rapporto Beveridge): il bisogno, specie nella vecchiaia; lo squallore abitativo; la disoccupazione; la malattia; l’ignoranza. È quel sistema di provvidenze senza le quali, secondo un grande visionario come Aneurin Bevan, una società non può considerarsi civilizzata.
Tuttavia, ad avviso di chi scrive, è soprattutto alle politiche volte a contrastare l’ultimo dei mali giganti menzionati, l’ignoranza, che va attribuito il riconoscimento di vero pilastro della riduzione delle disuguaglianze, sia pure in una prospettiva intergenerazionale. Il sistema della scuola universalmente accessibile, in regime di gratuità o di quasi-gratuità, è l’autentico e forse unico ascensore sociale offerto alle famiglie meno abbienti.
Questo può e deve essere la scuola: non solo la “buona scuola”, ma la “migliore scuola”.
Se la scuola è deficitaria rispetto a questo obiettivo, le conseguenze in termini di irrigidimento di classi diventano drammatiche. Come ha risposto, nel passato lontano e recente, la scuola italiana di fronte a questo ruolo fondamentale, specie per la sinistra? Come si attrezza la scuola a rispondere nelle riforme in corso, specie nelle posizioni della sinistra?
Faccio mie le parole di Luigi La Spina (“La Stampa” 7 maggio 2015, tema ripreso ibidem il 9 giugno 2015): “Ci vorranno molti anni (...) perché si comprenda il drammatico boomerang dell’esasperato ugualitarismo, praticato sulla scia degli slogan sessantottini. La lotta contro la selezione di classe, misconoscendo il merito individuale, ha finito per irrigidire tanto la scala sociale, da rafforzare la divisione classista che si voleva combattere “. Il punto fondamentale è che i figli della famiglie abbienti non hanno bisogno della scuola per formare i loro rampolli: “… i figli della borghesia intellettuale ed economica competono sui mercati internazionali”, perché dispongono di opportunità sconosciute alle famiglie meno abbienti (conoscenza delle lingue, frequentazioni formative ed educative all’estero, ecc.). “I nostri licei e i nostri istituti secondari non riescono più a svolgere uno dei compiti che ha contribuito di più al cambiamento del nostro Paese, a metà del secolo scorso, quello di alimentare il motore dell’avanzamento sociale delle classi meno avvantaggiate”. “L’autorità della competenza deve diventare la nuova bandiera della sinistra italiana, e l’unico strumento di questa battaglia è proprio la responsabilità del giudizio”. Per questo la scuola italiana non può e non deve prescindere dalla valutazione della qualità dell’insegnamento.
Questa è la posta in gioco del dibattito sulla riforma della scuola. Faccio mie le parole di Galimberti: “Non trovo assolutamente scandaloso che i presidi, con i collaboratori più impegnati, abbiano la possibilità di assumere gli insegnanti più capaci e dimettere gli incapaci” (come è stato scritto, gli insegnanti “indecenti” e quelli “in-docenti”) rovesciando un perverso sistema di ugualitarismo e irresponsabilità, figlio del sessantottismo sindacalizzato.
In conclusione, per la sinistra italiana, e in particolare per il Partito Democratico in cui milito, questo significa doversi richiamare alla propria vocazione più autentica: ridurre le disuguaglianze intergenerazionali, assicurando a una scuola di qualità la piena funzionalità di ascensore sociale. Un annacquamento o un indebolimento di questa strategia, per ragioni di consenso, per pretestuose schermaglie interne, o per appiattimento su posizioni sindacali – che paiono muoversi da ben diverse e purtroppo contrastanti preoccupazioni –, rappresenterebbe un cieco tradimento delle radici fondanti della sinistra, foriero di gravi implicazioni sociali.
Ma la sinistra italiana è ancora capace di visione? |