La nuova ondata giudiziaria che si è abbattuta sulla Roma politica ha costretto i media ad archiviare il dibattito, appena avviato, sulle elezioni regionali. Eppure l'asprezza della polemica della Lega e di Cinque Stelle contro il governo ed il PD, ritenuti coinvolti dalla vicenda di Mafia Capitale, ha certamente a che fare con elezioni che hanno indebolito la maggioranza di governo.
In realtà una lettura corretta del voto dovrebbe riconoscere che ogni regione richiede una riflessione particolare: il voto ligure e quello veneto possono avere lo stesso segno politico, ma sono la conseguenza di due diverse situazioni.
L'elezione di Zaia ha consolidato un giudizio positivo su una esperienza amministrativa appena conclusa, anche se la Lega veneta stava facendo i conti con la scissione provocata da Tosi. E la Moretti, candidata del PD nel Veneto non ha saputo avvantaggiarsi delle difficoltà della Lega.
In Liguria la Paita, candidata “renziana”, non ha retto al dissenso della sinistra, anche perché si è presentata come erede di un’amministrazione esposta a molte critiche. E così Toti, un “berlusconiano” senza radici politiche nella società ligure, ha conquistato la presidenza della Regione soprattutto con i voti leghisti. E si sta già comportando come un satellite di Salvini, senza rendersi conto di favorire, in questo modo, il declino di Forza Italia nel Sud.
La sfida elettorale tra centrosinistra e centrodestra si è comunque conclusa, nelle sette regioni interessate da questa competizione, con un netto 5 a 2 a favore del PD. E Matteo Renzi, può dire di aver vinto le elezioni, anche se si tratta di una mezza vittoria. La valutazione politica del voto non può essere riassunta in questa affermazione: è sempre Renzi a riconoscere che dopo queste elezioni la maggioranza di governo dovrà aprirsi a qualche correzione della riforma della scuola e della riforma del Senato.
A costringere a una correzione della rotta renziana è in primo luogo il dilagare dell'astensionismo: quasi il 50 per cento degli elettori ha disertato le urne. La democrazia non può vivere senza popolo, e a poco serve fare riferimento alle percentuali elettorali delle altre grandi democrazie. Il dilagare del “partito del rifiuto”, che non a caso si accompagna al crescente consenso elettorale per movimenti populisti, anti-politici, costringe a tenere aperta la riflessione sul futuro delle istituzioni democratiche e sul rischio di un deragliamento autoritario dell’esperienza repubblicana.
Questa riflessione deve accompagnarsi con quella che riguarda la flessione dei consensi al PD. Renzi si attendeva dal voto una conferma degli orientamenti emersi dalle elezioni europee. L'esito di quelle elezioni aveva offerto al premier la risposta a tutte le critiche che gli venivano rivolte: “il 40,8% degli italiani mi ha votato, mi ha dato la responsabilità di decidere”. Quel dato elettorale era indiscutibile, anche se dovuto più alla flessione del centrodestra che a una crescita di consensi al PD. Il voto delle regionali ha privato la strategia democratica, e in particolare il premier, di quel riferimento politico.
Questo mutamento di orizzonte si è accompagnato, nelle Regionali e in migliaia di Comuni, a una ulteriore disgregazione degli schieramenti politici. Quasi ovunque i candidati che hanno vinto la sfida elettorale lo hanno fatto in forza di “coalizioni” più che in forza dei consensi raccolti dal partito-perno dello schieramento. La maggior parte dei commentatori ha scritto che “il bipolarismo non c'è più”; ormai possiamo parlare di tripolarismo, o forse di quadripolarismo. Le prossime elezioni politiche dipendono dagli schieramenti elettorali, dalle alleanze che Berlusconi riuscirà e realizzare, con Salvini o/e con i cespugli moderati, dalla evoluzione, ormai evidente, nel Movimento di Grillo. E anche dal futuro politico della “Coalizione sociale” e dagli “antagonisti” che stanno agitandosi “oltre il PD”.
Si è comunque dissolta la maggioranza che si era formata sul “patto del Nazareno”, e non c'è operazione trasformista – neppure quella cui pensa Denis Verdini – che possa rendere sicura la maggioranza di governo al Senato, se non si ricompone l'unità del PD. Questa osservazione sulle incertezze del futuro non permette di prevedere una crisi di governo e la fine della legislatura, ma chiama in causa la vita democratica della maggioranza, l'unità del PD stesso. E per chi voglia guardare al futuro del Partito Democratico con animo sgombro da pregiudizi, l'esito delle Regionali rimette in discussione la stessa riforma elettorale appena imposta da Renzi. L'esito delle Regionali dice infatti che il voto di lista e il doppio turno dell'Italicum, immaginati come regola aurea per l'obiettivo del bipartitismo e della governabilità, si trasformerà in una “ammucchiata”, in un listone necessario per vincere. E se il secondo turno vedesse in campo – come i più prevedono – il leader democratico e il leader grillino, questa contesa potrebbe ricordarci il Palio di Siena, dove chi non può festeggiare la vittoria, cerca di festeggiare la sconfitta dell'avversario storico.
Anche di questa ipotesi, della prospettiva che si potrebbe aprire, con tre/quattro schieramenti in competizione che al primo turno si fermano sotto il 40% dei voti, diventa necessario discutere con senso di responsabilità e di realismo andando oltre il dogma del bipolarismo, oltre la riproposizione del “centralismo” come garanzia dell'unità del partito, riscoprendo il valore del pluralismo, della unità fondata sulla forza di un progetto comune e della ricerca del consenso politico. |