Nel quarto appuntamento del seminario su COME CREARE LAVORO abbiamo cercato di capire come la formazione professionale possa essere uno strumento per contrastare la disoccupazione. Ci siamo avvalsi della presenza di due esperti: Dario Nicoli, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica di Brescia, e Massimo Tamiatti, ricercatore dell’Agenzia Piemonte Lavoro.
Tamiatti è quotidianamente a contatto con i giovani all’ultimo anno delle superiori per orientare le loro scelte verso una professione. “Trovo molta depressione nei ragazzi, provocata dalla crisi che tocca pesantemente le famiglie. Il mio compito è anche di tirarli su di morale, dar loro una speranza, senza illuderli, cercando di orientarli verso le professioni del futuro”. Ha fornito una serie di dati utili: dal 2008 al 2014 in Piemonte le assunzioni sono state 4 milioni e mezzo (non persone assunte, ma assunzioni con ogni tipo di contratto). Le professioni più richieste sono o non qualificate o poco qualificate: primi della lista commessi, poi autisti, cuochi, muratori, camerieri, addetti alle pulizie. Ma le qualifiche delle statistiche spesso spiegano poco: “Molte professioni si sono modificate rapidamente, vedi il meccanico d’auto con tutta l’elettronica applicata, o un autista di TIR guidato dal satellitare o un cameriere con il tablet da cui controlla il flusso delle portate. Altre, quelle ripetitive, sono a rischio di estinzione: pensiamo ai call-center o agli addetti cassa, destinati ad azzerarsi come già capitato, ad esempio, agli addetti dei caselli autostradali. Teniamo sempre presente che oggi le macchine raddoppiano la loro potenza in pochi mesi, mentre la macchina a vapore ci riuscì dopo 70 anni”.
Ma allora quali lavori avranno un futuro?
“Due sociologi di Oxford hanno detto che il 65% delle professioni future non sono ancora state inventate. Difficile quindi fare previsioni e dare consigli ai ragazzi. Dico loro che occorre avere competenze generali molto forti e specializzarsi all’ultimo. Fondamentale sapere bene l’inglese: persino a Valsalice i salesiani hanno abbandonato il francese, con l’inglese prima lingua, poi il tedesco e il cinese. Molti giovani sono andati all’estero, e l’inglese è una competenza indispensabile, oltre alla professionalità. Per gli universitari è importante iscriversi ai percorsi Erasmus: coloro che hanno fatto un’esperienza internazionale, ci dicono le statistiche, hanno un tasso di disoccupazione più basso di 22 punti percentuali. Poi le competenze digitali, con la diffusione della banda larga: pensate che per Natale scorso 10 milioni di italiani hanno fatto acquisti on-line. Sono tanti i negozi che chiudono in paesi e città, ma tanti negozi virtuali aprono. Poi i giovani devono accettare i tirocini (in Piemonte Garanzia Giovani propone borse-lavoro da 600 euro), e devono capire che non c’è solo il lavoro dipendente ma anche quello autonomo, ad esempio l’artigianato digitale. Purtroppo in Italia pare al momento che non ci sia un euro da investire, e i soldi possono solo arrivare dall’Europa”.
Arrivassero dei fondi, dove sarebbero da destinare?
“Il piano strategico europeo Agenda 2020 prevede un’economia solidale, sostenibile, intelligente: solidale, quindi lavori ‘bianchi’ nel campo sanitario e socio-assistenziale; sostenibile, quindi lavori ‘verdi’ nel campo della green economy; intelligente, quindi lavori digitali. L’invecchiamento della popolazione comporta un aumento di infermieri, medici, tecnici della salute, assistenti domiciliari. La telemedicina che si svilupperà grazie alle tecnologie, alle biotecnologie, alla robotica. La cartella clinica elettronica sconvolgerà la sanità anche sul piano amministrativo. Nel socioassistenziale si prevedono meno innovazioni, ma i profughi faranno aumentare i mediatori sociali e culturali: uno sbocco per gli studenti del sociopedagogico.
Poi la crescita sostenibile. Quando cambia il sistema energetico, cambia un’economia, cambia un’epoca. Vediamo già quante sono le auto ibride, a metano, a gas. L’Italia è un Paese ottimale per le energie alternative: sole e vento al sud, acqua e boschi per impianti a biomassa al nord. ACEA a Pinerolo ha un impianto a biomassa che vengono a visitare dagli Stati Uniti. Per ‘Il Sole 24ore’ ci sarebbero già oggi 22.000 posti di lavoro disponibili in più in questo settore, che in Europa dà lavoro a oltre 20 milioni di persone. Tecnici del trattamento rifiuti e tecnici delle energie rinnovabili sono nuovi lavori in continua evoluzione. La bioedilizia potrebbe diventare un volano di rilancio dell’economia, nell’adeguamento degli edifici a contenere i consumi energetici. Fotovoltaico sul tetto, batterie di accumulo in cantina e auto elettrica nel garage sono una rappresentazione del futuro, a costi sempre più accessibili. Non dimentichiamo le opportunità del turismo – enogastronomico, museale, fieristico – che si è sviluppato a Torino. Agroalimentare, Slow Food e Eataly, agricoltura biologica, allevamento di qualità, filiera corta, con aumento delle microimprese agricole condotte da giovani. E consideriamo la chimica verde dei sacchetti biodegradabili, dei biocarburanti e dei cosmetici naturali, il tessile con prodotti naturali che si sta sviluppando nel novarese. La crisi ha colpito anche, seppur di meno, i green jobs, ma nel frattempo ne sono nati dei nuovi.
Terza caratteristica della crescita è quella intelligente, cioè la dimensione digitale. La banda larga è fondamentale, internet arriverà dappertutto. Il settore ICT è in continua evoluzione e può dare spazio anche a percorsi di studio umanistici, poiché c’è bisogno di persone che lavorano sulle comunità virtuali, dando contenuti, avendo competenze di storia, di economia, di sociologia. A Torino il settore dell’aereospazio ha sette importanti aziende che costruiscono droni, una delle macchine del futuro. Non abbiamo più la FIAT a Mirafiori, ma il polo dell’auto di lusso, con la Maserati a Grugliasco e 40.000 addetti dell’indotto. Poi la robotica, mercato in espansione anche nel grande mercato cinese, e la meccatronica che sta puntando sulle stampanti in 3D, sempre più utilizzate nella manifattura intelligente: la Barilla sta pensando alla pasta personalizzata, mentre i pupazzi per la Walt Disney sono già prodotti a un passo da via Roma, nello studio-laboratorio di tre ingegneri torinesi”.
Il saldo tra nuovi lavori e lavori che si perdono non è però positivo. Rifkin aveva ragione nel prevedere la disoccupazione tecnologica.
“È vero, questo rimane il vero problema. Mi ha molto colpito sapere che Facebook ha acquisito a inizio 2012 Instagram per le foto digitali, assumendone i 13 dipendenti. Pochi mesi dopo, la Kodak ne ha licenziati 145.000. I due fatti non sono direttamente correlati, ma fanno riflettere. Nel mondo che cambia è più lento creare occupati, mentre molto più velocemente si distruggono posti di lavoro”.
Probabilmente non si può affrontare una crisi così grave senza una preliminare rivoluzione culturale. Dario Nicoli, da sociologo, ne è convinto.
“La storia economica dimostra che la crescita degli occupati è stata costante, intervallata da periodi di crisi. Le statistiche dicono che in Italia, rispetto alla media europea, lavorano meno donne e meno giovani. Ma abbiamo anche meno giovani, teniamolo presente. Cambia il lavoro, cambiano le professioni: per essere capaci di affrontare l’incertezza, occorre spirito d’iniziativa e personalità.
Ricordiamo che ci sono lavori che producono valore, misurato con il denaro, altri lavori che invece il denaro lo consumano. Premesso tutto ciò, richiamo la denuncia che ha fatto Luca Ricolfi parlando di una ‘deriva signorile’ della società. Abbiamo cioè pensato di vivere non più in linea con la mappa dei valori: non sono più stati fatti figli, ma il futuro sono i giovani, non bastano gli ‘anziani giovani’; ogni sociètà sana si basa sui giovani, che da noi rimangono invece come sospesi e improduttivi per molti anni, diventando prima trentenni poi quarantenni. Sono aiutati dal fatto che in Italia il patrimonio immobiliare pro capite è stato calcolato in 178.000 euro: nella ricca Germania è meno della metà, 82.000 euro. Questa ricchezza delle famiglie permette di poter vivere non lavorando, inseguendo scelte di vita non coerenti con l’economia e il mercato del lavoro. Abbiamo visto il mito della comunicazione, il mito del mediatore interculturale, la giurisprudenza diventata un rifugium peccatorum. Sono proliferati i percorsi di nicchia e senza sbocchi, cito l’antropologia culturale per tutti. Le varie riforme dell’istruzione hanno causato una liceizzazione crescente del Paese, indebolendo la scuola del lavoro, quella tecnica e professionale, che è la scuola del futuro. Che è la cartina di tornasole tanto del progresso quanto della decadenza di una società. E in Italia le scuole di formazione professionale si sono impoverite in tutti i sensi. Peccato, perché la scuola del futuro è la scuola professionale”.
Si è quindi indebolita l’idea stessa del lavoro, posto a fondamento della nostra Carta Costituzionale. “Vero, ma il popolo – che esercita la sovranità – esiste ancora. Quel popolo che non si fida degli intellettuali, crede alla concretezza, sostiene l’etica del lavoro, ritiene che ognuno debba prima di tutto darsi da fare. Questo popolo non ha una scuola che lo aiuta. Le Regioni non programmano i corsi nei Centri di formazione sulla base dei fabbisogni lavorativi, ma in base alle risorse a disposizione. È un grave limite, che non permette di formare i lavoratori necessari. I giovani in esubero si iscrivono in genere a un istituto professionale: qui su 32 ore di lezione ne hanno 28 di teoria, suddivise in 11 materie, e solo 4 di laboratorio, cui si aggiunge un mese di tirocinio, non rinnovabile. Il risultato è un alto numero di abbandoni scolastici”.
Aumenta così il numero dei cosiddetti NEET, giovani scoraggiati che né studiano né lavorano, che fa salire la percentuale della disoccupazione giovanile a sfiorare il 50%.
“Questo risultato si deve proprio al fatto che in Italia solo il 20% degli studenti frequenta una scuola professionale, mentre all’estero sono il 35%. Insistiamo troppo sulla scolarizzazione, invece di dare una cultura in azione sul lavoro che evolve. Centro dell’apprendimento deve essere il laboratorio. La cultura si dà con il laboratorio, la vera forma di apprendimento. I CFP funzionano meglio degli Istituti professionali perché hanno metà delle ore totali in laboratorio pratico: in Piemonte sono frequentati dall’8%, hanno meno dispersione (il 13% contro il 28%) e garantiscono più occupazione (il 60% dopo un anno, sugli ultimi dati, in pieno periodo di crisi)”.
Quindi delle buone scuole professionali danno qualche speranza in più per trovare lavoro.
“Per creare lavoro occorre investire sulle scuole professionali. Da noi i professionali, per pregiudizio, sono considerati la scuola dei meno intelligenti. L’intelligenza più importante in una società è saper fare le cose. È nella scuola professionale che si fondono la cultura del lavoro e la cultura dell’impresa. Non basta avere un’idea innovativa, bisogna realizzarla. La gerarchia del lavoro ha al primo posto chi lo sa fare: lo studente deve diventare allievo, un allievo che impara il mestiere da un maestro. E invece vediamo migliaia di giovani bloccati in percorsi senza sbocchi o inattivi a casa. Bisogna valorizzare i tanti maestri del lavoro che esistono, con una formazione più concreta, basata sui maestri che insegnando lavoro insegnano vita. Certo, i maestri devono essere aggiornati ed essi stessi inseriti nel mondo del lavoro: la ‘statalizzazione’ degli insegnanti nella formazione professionale porta solo danni. E non si possono aspettare anni per istituzionalizzare un percorso di studio professionalizzante, perché così abbiamo dei corsi già vecchi prima ancora di partire. Dobbiamo poi puntare sull’alternanza scuola-lavoro, con un doppio maestro, quello sul lavoro e quello a scuola, dove nei laboratori si impara da altri maestri che conoscono il lavoro. I Centri professionali dei Salesiani e dei Fratelli delle scuole cristiane funzionano meglio perché hanno spesso collaborato validi ex allievi come formatori”.
Di tutte queste esigenze di cambiamento, c’è qualcosa di utile nella riforma della “buona scuola” di Renzi?
“Nella ‘buona scuola’ di questo, purtroppo, non c’è nulla. Solo nelle deleghe è stato inserito qualche titolo tutto da sviluppare. E queste carenze si assommano a un apprendistato – altro modo per essere a contatto con i maestri del lavoro – che continua a non funzionare”. |