beppe mila - 2015-04-27 Sarò banale ma condivido anch'io in toto le considerazioni di Ladetto, specie nella seconda parte e nel finale, quando si parla senza ideologie dei problemi e delle aspettative del sud del mondo.
Sarò ripetitivo ma ritengo che la cultura socioeconomica e geopolitica di Ladetto siano particolari e siano un patrimonio che i Popolari dovrebbero sfruttare di più. | ||
Andrea Griseri - 2015-04-27 Si crea un eccesso di manodopera o di competenza: per soddisfare la domanda occorrono meno operai e meno lavoratori della conoscenza; allora bisogna inventare nuove attività nuove occasioni di impiego: temo che il privato non sia in condizione di farlo. Occorrerà reinventare il ruolo delle istituzioni , pensare a una nuova stagione di interventismo evitando gli errori del passato. Non è indifferente che Marchione guadagni 400 volte un suo collaboratore quando il rapporto dello stipendio di Valletta era di 1 a 40. Il problema dei supercompensi di cui beneficia la casta dei top manager è una delle gravissime storture dell'economia contemporanea. Mi stupisce che troppo di rado gli economisti ragionino come se la crescita indefinita fosse una concreta possibilità: ha ragione Ladetto il lavoro e il benessere possono essere creati in un contesto di risorse finite, il consumare dovrà essere rimodulato. E' una sfida enorme ma una strada obbligata. | ||
franco maletti - 2015-04-23 Mi spiace, ma trovo più convincenti e soprattutto concrete le argomentazioni di Giuseppe Ladetto. Aggiungo uno provocazione, valida per il prossimo incontro: "Tutti i contratti di lavoro nazionali sono "costruiti" su un modello di impresa che ha fatto il suo tempo e che impone modifiche radicali sia sul piano organizzativo che sul piano normativo. Troppe leggi e regolamentazioni seguono questo modello, privilegiando alcune classi di lavoratori e tenendo in scarsa considerazione le nuove figure lavorative emergenti. Il sindacato difende le sue roccaforti ideologiche ed il vecchio modello ponendo un freno a qualunque tipo di adeguamento alla realtà. Occorre un salto culturale che tenga conto dell'ambiente e del territorio, che privilegi le ricchezze, anche artistiche, di quest'ultimo. Lasciando alla spalle il vecchio modello industriale ed i suoi feticci. Tutto questo ricorda l'apologo del vecchio e il mare. Esiste qualcuno in grado di uscire nuovamente in mare aperto, magari attraverso nuove ed originali alleanze sociali, pronto per ricominciare tutto daccapo?" | ||
giuseppe cicoria - 2015-04-23 Condivido appieno le considerazioni di Ladetto. Mi permetto di riproporre un'altra che ho prospettato al professore che però si è dichiarato non competente nel campo finanziario.
Il lavoro è carente in tutto il mondo ma in Italia ancora di più. Perché è noto che il maggior assorbimento di mano d'opera avviene nelle grandi aziende che di norma sono quotate in borsa il cui capitale è rappresentato di azioni. Nelle aziende medio piccole, invece, l'assorbimento è polverizzato e il capitale è prevalentemete nelle mani di singoli o di persone legate da rapporti familiari o di amicizia e non sono quotate in borsa.
La nostra Borsa è asfittica e gli aumenti di capitale, che potrebbero servire ad ampliare la produzione e, quindi, il lavoro, è merce rara. Gli italiani che hanno grandi disponibilità di risparmi direttamente o tramite promotori finanziari non investono quasi mai in Italia ma all'estero. Ciò è dovuto alla bassa remunerità ed alla carenza di difesa del risparmio investito. Sono note infatti le "truffe legali" subite da milioni di piccoli risparmiatori a seguito di acquisizione fatte "a debito", con aumenti di capitale fatte con falsificazioni di bilanci (non puniti) o con prebende indebitamente trattenute dai CEO o presidenti. Queste aziende se vogliono, ora, denari debbono emettere obbligazioni che hanno un costo finanziario superiore. La competitività va a farsi benedire: non si investe; anzi si delocalizza; il lavoro non aumenta ma anzi diminuisce! | ||
Giuseppe Ladetto - 2015-04-23 Frigero è una persona preparata, simpatica, molto aperta e disponibile, avendolo ascoltato di persona. Ha trattato alcune questioni essenzialmente legate al contesto piemontese e nazionale. Sul tema centrale della questione della mancanza di lavoro non ho tuttavia colto indicazioni significative sulla diagnosi del male.
Frigero ha evidenziato che il miglioramento della produttività del lavoro (ad opera di tecnologie o di riorganizzazioni innovative) riduce, come è ovvio, la mano d’opera necessaria per unità di prodotto, e mi pare abbia riconosciuto che gli incrementi della produzione, nel contesto attuale di ridotta crescita della domanda, non siano sufficienti a mantenere l’occupazione. Ci ha detto che è un fatto inevitabile sul quale è oggi impossibile prevedere come andrà a finire.
Due sue indicazioni mi sono parse nette. La strada del lavorare tutti, lavorando meno non è da lui condivisa. L’unica cosa importante è puntare sulle imprese capaci di innovare sulle tecnologie produttive e sulla qualità dei prodotti.
Circa il lavorare meno, lavorare tutti, evidenzio che, a partire dall'Ottocento per arrivare agli anni Ottanta, si è avuta una considerevole riduzione degli orari lavorativi (dalle 12-14 ore giornaliere per 6 giorni alla settimana alle 36-40 ore settimanali). Da circa trent'anni il fenomeno di riduzione si è fermato, ed anzi con gli straordinari ha fatto in parte marcia indietro. Perché? Credo che ciò dipenda dalla globalizzazione: per competere nel mercato planetario con i paesi emergenti, le imprese dei paesi occidentali traducono tutta la riduzione dei costi da innovazione tecnologica in riduzione dei prezzi. Rimanendo in un mercato globale, non sarà possibile, almeno per vari decenni, seguire la via del lavorare meno lavorare tutti.
Quanto all'innovazione tecnologica come unica arma per creare lavoro, mi restano dei dubbi. E' una risposta per tutti i paesi, o un mezzo per essere tra i non molti vincenti nella gara all'ultimo sangue che caratterizza il mondo attuale? Mi è parso di capire che l’innovazione dovrebbe portare alla creazione di nuovi beni e di nuovi servizi che andrebbero ad alimentare una nuova domanda e così creare occupazione. Qui Frigero, come tutti gli economisti, non prende in considerazione i limiti dettati dalla carenza di materie prime (rinnovabili e non) e dall'impatto ambientale delle attività produttive. Che il modello di consumi dell’Occidente non sia estendibile all'intero pianeta è evidente. Frigero (citando una personalità asiatica) dice che alle persone dei paesi del sud del mondo non interessa quanto guadagna e consuma un americano o un occidentale; ciò che loro importa è avere una vita dignitosa. Ma le cose non stanno così. In primo luogo, l’impronta ecologica (la superficie bioproduttiva necessaria a per soddisfare i bisogni di una persona) media planetaria è di 2,2 ettari, già superiore alla superficie biodisponibile pro capite, 1,98 ettari. Ora, se l’impronta ecologica di un americano è di 7-8 ettari e quella di un eritreo è di 0,2-0,4 ettari, è ovvio che quest'ultimo non potrà migliorare la sua situazione senza che si riducano i consumi degli americani e più in generale degli occidentali. Altro aspetto, non è vero che gli abitanti del sud del mondo siano indifferenti a come vivono gli occidentali. Alla base della crescente ondata migratoria c’è proprio l’aspirazione a vivere nell'Occidente come vivono gli occidentali. In ciò, mi spiace confutare quanto anche larga parte del mondo cattolico dice: non sono i più poveri, i più minacciati a fuggire con ogni mezzo dai loro paesi per raggiungere l'Europa; sono invece prevalentemente persone con qualche disponibilità economica, con un discreto grado di istruzione, e certamente con maggiore intraprendenza della grandissima parte degli africani. |