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Senza senso civico dilaga la corruzione
 
di Marcello Veneziani
 

Gli episodi di corruzione si susseguono nelle cronache dall'Italia. Potremmo dire che ci siamo abituati. Invece no. Continuiamo a indignarci, perché fino a quando ci sarà indignazione rimarrà anche la speranza di un cambiamento. Ma questo cambiamento difficilmente potrà arrivare grazie a norme più severe, che nel nostro Paese, dai tempi di don Abbondio, non hanno mai spaventato più di tanto. Servirebbe prima di tutto una rivoluzione delle coscienze, un sussulto di senso civico. Noi lo pensiamo da tempo, e ci fa piacere che un intellettuale con radici distanti dalle nostre come Marcello Veneziani ne abbia esplicitamente parlato sul “Corriere della Sera” di domenica scorsa.
Alleghiamo qui sotto il documento.

Documento

Marco Gambella - 2015-04-10
Condivisibili, gli argomenti di Veneziani, ma trovo che sia una visione limitata del problema. Soprattutto condivido ciò che io sostengo da molto tempo: in Italia la crisi non è economica, è culturale. La corruzione nella penisola non è un problema recente, era presente nella vita pubblica già ai tempi di Catilina. Anche negli anni del secondo dopoguerra, quando il nostro Paese decollava nel boom economico, le bustarelle erano oggetto di satira da parte dei comici del sabato sera. La vera crisi del popolo italiano risiede nel fatto che non è un popolo. Manca un’identità, da sempre. Nello Stato riunito da Vittorio Emanuele II sono confluite le molte etnie diverse che abitavano il territorio. C’è chi ne ha contate una settantina, ma la verità è che non vanno d’accordo persino torinesi con cuneesi, figuriamoci il resto. Penso ad esempio a pisani e livornesi… La crisi italiana riguarda l’identità, citata da Veneziani. La mentalità, il carattere. Il grande errore è stato fatto, a mio parere, nel 1984, quando la revisione del Concordato ha privato gli italiani di una religione di Stato. Il cattolicesimo ha molti punti deboli e diversi difetti; il referendum sul divorzio, per fare un esempio, aveva già scavato un profondo fossato tra la realtà di famiglie dimezzate e i dogmi della dottrina. Inoltre l’abuso del perdono dopo la confessione porta i fedeli a scaricarsi di ogni senso di colpa, anche a seguito dei crimini più efferati. Ma pur con le molte problematiche, la parrocchia aveva fino ad allora rappresentato una motivazione, per dirla con Veneziani, che portava i cittadini italiani a sentirsi parte di una comunità, a sentirsi obbligati verso il prossimo. L’ultimo grande baluardo alla totale dissolvenza del dovere civico era il servizio di leva. Nel 2004 abbiamo detto addio anche a quello. Anche qui dobbiamo concordare con le critiche, con chi sostiene che fosse un anno “buttato via”, ma fino ad un certo punto. Seppure criticabile, il servizio di leva dava ai giovani un senso di appartenenza, un sentimento di rispetto per la comunità per cui sentivano di svolgere un compito. Metteva i giovani a contatto con realtà molto diverse tra loro, veneti con siciliani, emiliani con pugliesi, ecc., con evidenti vantaggi di amalgama. Inoltre insegnava il rispetto per i cittadini, a dare del lei a tutti, a rivolgersi al prossimo con educazione. Non da ultimo (anzi, secondo me fattore molto importante), la “naja” rappresentava il vero “rito di passaggio” dall’adolescenza all’età adulta. Io penso oggi ad un nuovo servizio di leva obbligatorio, di carattere civile, con compiti che oggi sono di competenza di carabinieri, vigili del fuoco, protezione civile, croce rossa. Un servizio alla comunità, insomma, che i cittadini possano interiorizzare e portare con sé anche nella futura vita sociale. Da far svolgere, suggerirei, non soltanto ai giovani italiani, ma anche agli stranieri che arrivano in Italia a qualunque titolo. Apparentemente, soltanto apparentemente fuori tema, questi sono invece elementi che contribuiscono in modo pesante alla formazione di un clima diffuso di anarchia, nel quale ogni cittadino vive per sé, bada soltanto al proprio orticello, sono tutti cani sciolti che cercano l’occasione per “sistemarsi la vita”, anche se questa significa mettere i piedi in testa a qualcun altro. Da qui arriva qualunque metodo, lecito o illecito, per avere vantaggi o privilegi: può essere un assegno di accompagnamento per invalidi, o una licenza commerciale, può essere una bustarella per un funzionario pubblico, una vacanza o addirittura una casa per un rappresentante di farmaci, fondi pubblici per gli immigrati, un “di’ che ti mando io” in ospedale se ti prenotano l’esame tra sei mesi (quando va bene). Per non parlare di chi apertamente infrange le regole, siano esse del codice della strada o leggi fiscali, sapendo che le probabilità di venire scoperti sono minime, davvero minime. Tutto questo rappresenta il carattere degli Italiani, molto generosi nel caso di calamità e disastri naturali, ma estremamente individualisti nella vita quotidiana, pronti ad ogni discriminazione o bassezza pur di non perdere il proprio tornaconto. E così, ecco che la vita sociale tra cittadini si trascina faticosamente tra ritardi vergognosi (dettati anche questi da scarsa considerazione del prossimo) e diseguaglianze abissali. Tutti quanti nella convinzione diffusa di essere migliori degli altri, gonfi di quel senso di rivalsa di cui parla Veneziani, del sentirsi in credito verso la società per non vedersi riconosciuti i propri meriti. Pessimista? Forse. Però la realtà di un Paese bloccato è sotto gli occhi di tutti, un Paese in cui a pochi giorni dall’apertura dell’Expo non solo i cantieri sono molto indietro, ma saltano ancora fuori episodi di malaffare e corruzione, in cui tutti parcheggiano in seconda e terza fila per “un attimino”, in cui la notizia di apertura dei telegiornali sono le vittorie della Ferrari e di Valentino Rossi, in cui i carabinieri si mettono a rapinare, in cui un tale al quale era stata ritirata la patente, “pizzicato” alla guida della sua auto, non trova di meglio che dichiarare di essere suo fratello gemello, in cui chi fattura ad una pubblica amministrazione si sente autorizzato a chiedere un prezzo dieci volte superiore a quello che chiederebbe ad un privato, un Paese i cui abitanti sono ignoranti in geografia e confondono Mumbai con Dubai, in cui in una cittadina alle porte di Roma, un’auto in sosta ogni tre ha il contrassegno di invalidità, e si potrebbe andare avanti per un’infinità di piccole e grandi magagne. Tutte facce, queste, di una sola medaglia: la mancanza del senso di comunità. Quella cosa che normalmente è chiamato senso civico, espressione, però, che ha ormai assunto il significato di educazione, quindi per tutti superfluo, superato, fuori moda, roba d’altri tempi. Una società, quella italiana, che dopo 150 anni è ancora alla ricerca di un’identità. Ecco qual è il malessere italiano. Il rimedio? Beh, la cosa più importante è partire dalla cultura. L’istruzione è un grande antidoto alle disgregazione della società, ma non l’unico. Dovremmo far studiare la Costituzione nelle scuole, in tutte le scuole, e chiederla ai candidati nei colloqui di lavoro. Del servizio civile di leva obbligatorio abbiamo già detto, e sarebbe uno strumento formidabile per formare delle coscienze consapevoli. Ma non basta. La mia proposta, avanzata ormai più volte, è di aggiungere all’incipit “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” l’espressione “di tutti i cittadini”, e farla seguire dal secondo comma dell’art. 4, ignorato da tutti: “Ogni cittadino ha il DOVERE di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Dovere, capite? Il lavoro, per la nostra Repubblica, è un dovere, non un diritto. Certo, non sarebbe la panacea di tutti i mali, ma di sicuro qualcosa cambierebbe.