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Per una politica fiscale europea anticiclica
 
di Mario Rey
 

Tempo fa Romano Prodi definì stupidi i parametri europei in materia di saldi dei bilanci pubblici. Per stupido si può adottare la definizione di C.M. Cipolla: il comportamento di colui che danneggia gli altri e se stesso contemporaneamente. Nel corrente dibattito sulle direttive di Eurolandia sui conti pubblici vorrei far emergere un fenomeno che mi pare sottovalutato e che forse potrebbe dare motivazione alla affermazione di Prodi: si tratta della “Built-in Flexibility” o flessibilità automatica fiscale.
Partiamo da una storiella. C’era una volta un Re che desiderava avere al suo servizio una banda musicale. Viene indetta una gara, alla quale si presentano come candidate due bande. Il Re sente la prima e poi sceglie la seconda. La morale delle storia è che il Re avrebbe fatto bene ad ascoltarle entrambe. È noto che il pappagallo di Irving Fisher ripetesse in ogni occasione “è la legge della domanda e dell’offerta”. Dilatando questa cantilena all’ambito della macroeconomia, e applicando la morale della storia, ci si dovrebbe attendere che sia analisti economici sia soprattutto i decisori pubblici ponessero attenzione a entrambi i lati della tematica, il lato della offerta e il lato della domanda.
In realtà il pensiero economico e le politiche dominanti degli ultimi trent’anni hanno guardato pressoché esclusivamente al lato dell’offerta, la cosiddetta “Supply Side Economics”. L’attenzione al lato della domanda “aggregata” (“Demand Side Economics”), quale discendeva dalla teoria di J.M. Keynes, è stata fieramente rifiutata ed espulsa dal dibattito economico e politico. In particolare questa visione, specie nelle versioni più coinvolgenti del ruolo del settore pubblico riconducibili alla “Finanza funzionale” di A. Lerner o alla “Finanza compensatrice” (“Compensatory Finance”) di R.A. Musgrave, è stata vista come stimolatrice dei comportamenti più nefandi in materia di dilatazione del debito pubblico, in quanto forniva giustificazione alle politiche della spesa pubblica in disavanzo (il “deficit spending”) ben al di là delle circostanze economiche descritte da questi economisti.
Guardare al “lato dell’offerta” significa preoccuparsi di come gli elementi di produttività, efficacia, efficienza siano perseguiti in un certo Paese sia nel sistema produttivo di mercato sia nel comparto pubblico. Questo confronto è reso più spietato dal processo di globalizzazione, che ha fatto e fa cadere le barriere protettive di qualsivoglia natura tra i vari contesti nazionali. È stato ampiamente descritto come il quadro comparativo sia per il nostro Paese particolarmente impietoso per numerosi e forse troppi aspetti della vita sociale ed economica. Tempo fa la RAI trasmise un superbo programma di Piero Angela dedicato a questi temi. L’autore immagina che le classifiche internazionali siano come un grattacielo con molti piani e anche cantine e sotterranei. Ebbene nei vari parametri considerati (provo a ricordare: procedure burocratiche; sistema giudiziario; relazioni sindacali; sistema fiscale; evasione fiscale; corruzione; sistema scolastico; utilizzo di fondi europei, ecc) l’Italia era sistematicamente nelle cantine o nei sotterranei. Vorremmo negare la necessità e l’urgenza di riforme strutturali, specie dopo decenni di assenza di visione e latitanza di decisione da parte delle nostre classi dirigenti (mettiamole pure tutte, non solo la dirigenza politica)? Quali indicatori sono più drammaticamente eloquenti della fuga all’estero dei nostri laureati o la delocalizzazione delle industrie italiane, non in Cina o Romania, ma in Austria, Svizzera, Francia?
Per tutti coloro che ritengono inaccettabile questo stato di cose, per tutti coloro che non lo considerano ineludibile, è giocoforza diventare più renziani di Renzi. Non solo, è anche più che giustificato il richiamo, soprattutto di ordine etico, che viene dai nostri partner europei perché l’Italia ponga seriamente mano alle “nefandezze” di cui è costellata la nostra storia recente specie nell’uso del denaro pubblico.
Tuttavia cadremmo nell’errore del Re se guardassimo solo al profilo dell’offerta. In altre parole potremmo aver già avviato le riforme da tempo e scalato posizioni in produttività ed efficienza, e tuttavia trovarci in un contesto come quello vissuto dall’Europa di oggi di “vuoto deflazionistico” , in cui l’analisi keynesiana sulle cause della disoccupazione in essere è riconosciuta, da varie fonti, ormai del tutto pertinente. In altre parole è latitante nel contesto europeo la consapevolezza della necessità di politiche economiche compensatrici sul lato della domanda aggregata (consumi + investimenti + spesa pubblica), che sappiano cioè frenare il surriscaldamento inflazionistico che di norma accompagna le fasi di espansione, ma al tempo stesso incoraggiare le ricordate componenti economiche nelle fasi di recessione. Può tutto questo essere affidato alla sola politica monetaria? Come Mario Draghi ripete sovente la risposta è NO. Come è stato spiegato recentemente da Marcello De Cecco, la politica monetaria è asimmetrica. Essa è come una corda: utile a tirare, cioè a frenare le spinte inflazionistiche. Poco utile a spingere quando l’economia rallenta. È una porta su cui c’è solo scritto PULL, e non PUSH. Occorre quindi invocare il ruolo delle finanze pubbliche nella funzione compensatrice. Questo comporta di dover perseguire un obiettivo di pareggio di bilancio (o comunque un obiettivo prefissato di deficit di bilancio) non già con riferimento a un certo arco temporale, ad esempio un anno, ma con riferimento a un ciclo economico, in cui nei periodi di espansione si dovranno produrre avanzi di bilancio, e in periodi di recessione disavanzi.
Perché predeterminare obiettivi di pareggio di bilancio prescindendo dal ciclo economico porta a conseguenze catastrofiche per l’economia? Perché entra in gioco la flessibilità automatica fiscale o “Built-in Flexibility”. Di cosa si tratta? In regime di costanza della legislazione concernente la spesa pubblica e i parametri fondamentali delle imposte (presupposto, base imponibile, aliquote, ecc), taluni ammontare di spesa pubblica (in particolare i trasferimenti per disoccupazione) e soprattutto i gettiti delle imposte (in particolare quelli delle principali sui redditi personali e societari, e sugli scambi, leggasi IVA) non sono stabiliti dal decisore pubblico, ma dall’andamento dell’economia. Il decisore pubblico può andare a dormire (o quanto meno attivarsi nel contrasto all’evasione): a fronte di una crescita dei redditi e dei consumi avremo maggiori gettiti fiscali. Al contrario a fronte di un calo di redditi e consumi avremo una diminuzione di gettito. Questo è l’effetto di stabilizzazione automatica che un grande vecchiaccio dell’economia come M. Friedman aveva analizzato.
Predeterminare obiettivi di deficit di bilancio prescindendo da questo fenomeno porta a conseguenze catastrofiche perché i bilanci pubblici avranno un effetto non ANTI-CICLICO ma PRO-CICLICO. In periodi di espansione/inflazione, che producono AUTOMATICAMENTE incrementi nei gettiti fiscali e riduzioni nei trasferimenti per disoccupazione, perseguire obiettivi rigidi di pareggio (o saldo) di bilancio significa aumentare la spesa pubblica e/o alleviare i paramenti delle imposte (es. diminuire le aliquote fiscali). In altre parole l’effetto è quello di buttare benzina sul fuoco. Al contrario in periodi recessione/deflazione, che determinano AUTOMATICAMENTE decrementi nei gettiti fiscali e aumento dei sussidi di disoccupazione, perseguire obiettivi rigidi di pareggio (o saldo) di bilancio significa dover aumentare le aliquote delle imposte e diminuire la spesa pubblica: insomma è come salire in bicicletta sullo Stelvio con il rapporto da discesa.

Purtroppo questa seconda situazione collima esattamente con le politiche indotte dai parametri di bilancio europei. La cosiddetta austerità induce recessione/deflazione. Ne segue contrazione dei gettiti fiscali e aumento della spesa per trasferimenti di disoccupazione e quindi nuovo peggioramento dei conti pubblici.
È falso sostenere che la crescita sia figlia del risanamento dei conti pubblici, cioè della austerità. Al contrario il risanamento dei conti pubblici consegue alla crescita, che in qualche modo va innescata e incoraggiata. Per un’analisi coerente con questa affermazione rinvio all’articolo di Mariana Mazzucato su Repubblica del 16 marzo a proposito della necessità di una politica anticiclica europea di investimenti pubblici.