In alcuni recenti interventi autorevoli personalità come Bodrato e Zagrebelsky, a proposito delle iniziative del Primo Ministro e Segretario PD Matteo Renzi, hanno parlato di declino di vita democratica, di eccesso di Esecutivo, di cesarismo, di volontarismo preoccupante. Non mi pare di aver colto una critica di decisionismo: critica, come dirò, a doppio taglio. Ma che comunque sembra emergere.
Mi pare di aver colto che il riferimento sia rivolto ad alcune caratteristiche delle modifiche della Costituzione oltreché ad altre normative, legge elettorale e ordinamento degli Enti locali.
Un primo elemento sarebbe da leggere nella abolizione del bicameralismo paritario. Per contro autorevoli voci, come Napolitano, ci hanno ricordato che il bicameralismo paritario è un’anomalia nelle varie esperienze costituzionali e che comunque il tema è da molto, forse troppo tempo, sul tappeto, con diffuso consenso a favore della soluzione intrapresa.
Un secondo elemento riguarderebbe l’abolizione delle Province. Ma anche qui, per contro, vi è generale condivisione sulla ridondanza di ben cinque livelli istituzionali di governo a elezione diretta (Comuni, Province, Regioni, Stato, Parlamento europeo).
Infine la nuova legge elettorale creerebbe un vulnus di democraticità a causa dell’eccessivo peso di “nominati” (i capilista) rispetto a quelli prescelti con le preferenze. Anche qui si può ricordare che tutti i sistemi che si basano su collegi uninominali, compresi quelli che sono stati in vigore in Italia, passano per candidature “secche” di nominati. Tanto è vero che la competizione si rivolge ai collegi sicuri accompagnata dalla ricerca di vittime sacrificali da mandare ai collegi persi (chi scrive ha accumulato una lunga lista come ex-candidato a…). Quanto poi alla valenza salvifica delle preferenze per la democrazia, tanto da costituire un “caso di coscienza” etico per il senatore Gotor e dintorni, e come tale giustificante la violazione della disciplina di partito, è lunga la storia di censure e riserve sulle preferenze, come ancora recentemente ci ricordava Veltroni.
Come ampiamente descrivono studiosi e commentatori non partigiani occorre partire dalla pacifica costatazione che i sistemi politico-istituzionali, a cominciare dalle norme elettorali, devono garantire contestuale risposta a due esigenze intrinsecamente contraddittorie: la rappresentanza e il governo. Più in generale qualsivoglia sistema politico-istituzionale è una zona intermedia rispetto ai due casi polari: il primo caso è il governo senza rappresentanza, cioè le dittature. A proposito di queste, più che a Caio Giulio Cesare, che mi pare un po’ lontanino per fare confronti, mi piace fare riferimento a Kemal Ataturk, l’autocrate modernizzatore della Turchia (1923-1938). Voglio per inciso ricordare che solo un dittatore può indurre un popolo con una grande storia alle spalle a cambiare l’alfabeto della propria lingua.
L’altro caso polare è la rappresentanza senza governo: il caso di scuola è quello del Sejm, il Parlamento polacco, che nei secoli scorsi offrì un modello per la rappresentanza mentre in Europa si andavano costituendo le autocrazie monarchiche. Il Parlamento polacco costituì la tutela perfetta della rappresentanza: poiché tutti i membri erano da considerarsi eguali, il Parlamento poteva solo decidere all’unanimità: con l’espressione “liberum veto” ogni parlamentare (essenzialmente i “Magnati”) era in grado di bloccare qualsivoglia decisione. Un sistema che non lasciava spazio a “dittature della maggioranza”. Sarebbe stato caro, oltreché a Bodrato e Zagrebelsky, a economisti come Knut Wicksell. Peccato che il sistema non consentì il formarsi di un forte governo nazionale. Molti storici sostengono che questa situazione offrì l’occasione per voraci vicini – Russia, Austria, Prussia – per spartirsi a più riprese il povero paese. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur.
A quale punto intermedio di grigio ci troviamo oggi in Italia, tra il bianco e il nero dei due estremi? Davvero ci troviamo di fronte a un eccesso di governo, come si sostiene? A me pare di poter dire che ci troviamo di fronte alla situazione dello studente che, abituato a prendere sempre dei 4, a fronte di un 6 si sente candidato al Premio Nobel. In altre parole siamo ormai talmente avvezzi al protrarsi ultradecennale di situazioni di NON governo, che una classe di governo che si proponga di far fronte alle responsabilità della politica, cioè il bene comune della “polis”, in altre parole governi, cioè decida e decida con tempi non geologici, appare come una deriva preoccupante. Quello che altrove sarebbe una situazione normale (forse prescindendo dalla mordacità toscana), viene ritenuto un eccesso di esecutivo.
Per valutare la fondatezza di questi rilievi è necessario ripercorre per grandi pennellate la vicenda italiana del dopoguerra.
È avvenuto per mera casualità che il nostro Paese abbia avuto negli anni ’50,’60,’70 una straordinaria crescita economica e sociale? Le classi dirigenti di ogni comparto, a cominciare da quelle politiche e pubbliche sono estranee a tutto questo? Coloro che in quegli anni iniziavano a cimentarsi nell’impegno politico e di governo nazionale e locale erano ben consapevoli delle responsabilità derivanti dal mandato a governare: elaborare una visione, predisporre programmi, attuare progetti.
Sono convinto che questa consapevolezza avrebbe in allora fatto percepire molto consanguineo il “renzismo” di oggi. Ricondurre tutto questo esclusivamente alla figura di Amintore Fanfani, gli dà molto merito, sottacendo un clima che a mio avviso era molto più diffuso e condiviso.
Quanto ai decenni successivi, come economista lascerei parlare gli indicatori. È stato da più fonti ampiamente descritto come il quadro comparativo sia per il nostro Paese particolarmente impietoso per numerosi e forse troppi aspetti della vita istituzionale, amministrativa, economica, sociale. In un programma trasmesso alcuni anni or sono dalla RAI, Piero Angela immagina che le classifiche internazionali siano come un grattacielo con molti piani e anche cantine e sotterranei. Ebbene, nei vari parametri considerati (provo a ricordare: procedure burocratiche; sistema giudiziario; relazioni sindacali; sistema fiscale; sistema scolastico e universitario; ricerca e sviluppo industriale; utilizzo fondi europei; infrastrutture di trasporto; per non parlare di malavita e corruzione, ecc. ecc) il nostro Paese sistematicamente si colloca nelle cantine e nei sotterranei, fatta eccezione per il sistema sanitario e di pochi altri comparti.
Aggiungerei due fenomeni a mio avviso sconvolgenti: la delocalizzazione delle industrie italiane, non in Cina, o Romania, ma in Svizzera, Austria, Slovenia. Siamo forse convinti, come forse è Landini, che si possa creare un posto di lavoro in più senza che sia un imprenditore a crearlo (salvo ovviamente pubblicizzando tutto come vorrebbe la rivoluzione proletaria)? E ancora più grave è la fuga all’estero dei nostri giovani, specie quelli a più elevato grado di istruzione.
Questo stato di cose non è accettabile. È doveroso chiedersi: è ineludibile?
Sopratutto, anche qui, tutto è avvenuto, per caso? Le diagnosi sulle cause sono piuttosto concordi. Cito tra i più recenti il contributo di Francesco Delzìo (Opzione zero, Rubettino Editore): l’Italia bloccata dalla decisione di non decidere. Una classe dirigente, in primis quella politica e pubblica, incapace di visione lunga, di elaborazione di politiche pubbliche, e infine, visto che non è un peccato mortale, di decisione. Nel dibattito del 14 febbraio è stato ricordato da Tonini “che non vi è nulla di peggio di una politica che non è in grado di governare” (A. Moro). O dobbiamo rassegnarsi al fatto che “il nostro Paese non vuole farsi governare”? (S. Cassese). Fortunatamente vi sono molte storie di coraggiose politiche di successo: penso al caso della Città di Torino. Ma nel complesso è difficile non concordare con chi attribuisce molta responsabilità del quadro descritto alla generazione politica e pubblica “a opzione zero”.
Con Renzi e i suoi collaboratori nasce una nuova dirigenza e una nuova leadership che, a mio avviso, è dotata di una salutare prerogativa: è impaziente. Un uomo solo al comando? Semmai questo è il limite di questa nuova fase della vita del nostro Paese: che analoghe spallate di innovazione e autoriforma ancora poco pervadano e contagino altri corpi della nostra vita associata: la burocrazia pubblica, il mondo della scuola e dell’università, la magistratura, il mondo delle imprese e delle professioni, i sindacati.
Su questi terreni, è sperabile che vengano a cimentarsi voci alternative della politica. Non certo il rozzo populismo di Salvini. O la sgangherata “prova d’orchestra” di felliniana memoria del M5S.
Opporsi pregiudizialmente a questo disegno di governo arroccandosi nel proprio immobilismo con sterili pregiudiziali , è una strategia perdente. Per il futuro del Paese occorre formulare l’auspicio che le parti più vive della nostra vita politica e sociale si liberino al più presto della Sindrome di Milocca, come ci ricordava tempo fa Mario Deaglio (cfr. Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Le sorprese della Scienza). Purtroppo vedo crescere i candidati alla cittadinanza onoraria di quel Comune. Con le scuse agli abitanti dell’attuale Milena, ma la colpa è del grande Luigi. |