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Dalla democrazia alla tecnocrazia
 
di Giuseppe Ladetto
 

Qualche tempo fa, in un dibattito televisivo, Stefano Fassina ha detto che, con la nuova legge elettorale e con le riforme costituzionali in gestazione, si stanno riducendo gli spazi democratici. Paolo Mieli ha subito replicato che ciò non è vero, perché è assurdo immaginare che Renzi stia creando una dittatura.
Mieli da qualche tempo ama vestire l’abito dello storico. Come tale, dovrebbe aver presente che i sistemi istituzionali affermatisi nel corso della storia non sono solo due, ma molteplici. Aristotele, facendo riferimento al mondo ellenico della sua epoca, ha individuato ben sei distinte forme di governo. Una di queste, l’“oligarchia”, è adatta a rappresentare, nella sostanza, molte delle attuali forme di governo presenti anche nei Paesi occidentali.
Ridurre i sistemi istituzionali a due soli, “democrazia”, e “dittatura”, come fa Mieli, denota in materia uno schematismo ideologico rozzo, una concezione che, in ogni caso, non consente di descrivere e comprendere il mondo reale, sempre complesso, e ciò che vi accade.
Sotto il cappello del termine “dittatura”, non si possono mettere tutte le molteplici e profondamente diverse forme di governo non riconducibili a forme democratiche; forme di governo che hanno contrassegnato la storia e ancora oggi sono presenti in varie parti del mondo. Ad esempio, non ha senso inserire in unico calderone il populismo latino americano, teso a modernizzare società semifeudali inserendovi i ceti popolari, il totalitarismo nazista, fautore di una società gerarchica di caste su base razziale, o il sanguinario dispotismo africano di un Idi Amin Dada.
Ci sono regimi, come quello nazista e quello fascista, che esplicitamente rigettano il concetto stesso di democrazia, mentre altri, come nel socialismo reale, pretendono di concepire la democrazia secondo codici differenti rispetto a quelli di matrice liberale. Infatti, molti sono gli aggettivi (diretta, rappresentativa, liberale, popolare, socialista, autoritaria, plebiscitaria, matura, avanzata ecc.) utilizzati per definire differenti esperienze che ambiscono avvalersi della qualifica di “democrazia”.

Ma non è semplice dare una patente ufficiale di democrazia effettiva a tutte le forme di governo che si dichiarano tali. Per distinguere il grano dal loglio, occorrerebbero dei criteri oggettivi.
Norberto Bobbio alla domanda “Che cos’è la democrazia?” ha risposto fornendo una definizione minima del termine, di ordine procedurale, che vale per ogni tipo di associazione, e prevede due regole. Si può parlare di democrazia quando: 1) tutti i membri dell’associazione, direttamente o indirettamente tramite rappresentanti, partecipano alla decisione da prendere; 2) la decisione viene presa a maggioranza dopo una libera discussione.
Due regole semplici e chiare. Tuttavia non è facile verificarne il rispetto nel caso delle istituzioni politiche, anche di quelle che oggi sono comunemente definite democratiche.
La definizione minima proposta da Bobbio richiede una libera e razionale discussione delle questioni da parte di persone informate. Inoltre, tali questioni devono essere di interesse generale, e le decisioni da intraprendere devono essere tese a conseguire obiettivi di comune interesse. Realizzare ciò è relativamente semplice in associazioni numericamente ristrette e omogenee per riferimenti culturali e interessi. Invece è assai più complicato rispettare questi presupposti nei grandi organismi (gli Stati e le loro articolazioni territoriali) che comprendono un gran numero di persone di differente condizione sociale, aventi esigenze diverse e talora opposte, sempre di difficile composizione. Qui, sono gli interessi di parte a essere protagonisti, e la discussione (o sovente la disputa), unitamente al voto che ne consegue, non mira più ad individuare ciò che possa essere vantaggioso per tutti, ma ad ottenere la soluzione che favorisce solo coloro che sono in maggioranza. Così, troppo spesso, le decisioni delle assemblee elette riguardano i soli interessi di una parte della società, (i 2/3 dei cittadini ieri, e assai meno oggi), cioè di quel blocco politico-sociale maggioritario che comunque garantisce il successo elettorale al partito vincente. Dubito che tutto questo risponda pienamente, nella sostanza, alla definizione minima sopra riportata.

La situazione si complica se consideriamo i sistemi elettorali.
In una democrazia rappresentativa, la partecipazione dei cittadini alle decisioni si attua mediante rappresentanti eletti nelle assemblee. Si possono considerare rappresentati quei cittadini che, in numero non trascurabile, hanno votato candidati che, per soglie di sbarramento o per meccanismi elettorali maggioritari, non hanno avuto accesso alle assemblee? Se i voti espressi a loro favore sono in numero molto modesto, si tratta di un fatto inevitabile che va accettato; ma quando i voti espressi sono rilevanti (centinaia di migliaia o milioni nelle elezioni nazionali), penso si possa affermare che quei cittadini, privati di rappresentanti, sono stati esclusi dalle decisioni.
Non credo sia sufficiente dire che gli eletti, dal momento che entrano nelle assemblee, rapprendano la Nazione, ovvero tutti i cittadini, anche coloro che non li hanno votati. Sappiamo che nella realtà le cose non stanno così.
C’è poi il crescente astensionismo elettorale, che non può essere imputato alla pigrizia o ad un colpevole disinteresse dei cittadini. Molti di questi non si recano alle urne perché ritengono di non essere più in grado di individuare, nell’offerta politica, potenziali rappresentanti a cui delegare il proprio volere in merito a quelle decisioni alle quali tutti dovrebbero partecipare, sia pure indirettamente. Altri si astengono perché, in particolare nei sistemi bipolari, non colgono differenze di sostanza nelle proposte loro presentate da partiti sempre più simili. Così, nelle “democrazie mature”, capita sempre più spesso che vada a votare meno della metà, o addirittura meno di un terzo o di un quarto degli aventi diritto al voto. In tali situazioni, la rappresentatività è dissolta.
Pertanto, credo che in ambito politico la definizione minima di Bobbio non ci consenta, nemmeno sul piano procedurale, di distinguere con nettezza – con un sì e un no – i confini fra una piena democrazia e un suo più o meno decente surrogato.
E aggiungo che a qualificare una democrazia, oltre alle procedure, ci sono anche i contenuti riguardanti eguaglianza, libertà, pluralismo culturale e informativo, sicurezza ecc.

Resto pertanto della mia convinzione che, come ho riportato in altro scritto, la democrazia sia un traguardo ideale a cui tendere, ma che nella storia non sia mai stato compiutamente raggiunto. Ci sono momenti storici e luoghi nei quali ci si è molto avvicinati a detto traguardo ed altri in cui la distanza da esso aumenta. Quindi ritengo legittima l’opinione di Fassina circa una possibile riduzione degli spazi democratici conseguente alle attuali riforme istituzionali e alla legge elettorale (senza che ciò significhi una dittatura).
C’è chi dice che i fatti a cui stiamo assistendo non sono altro che l’adeguamento delle istituzioni democratiche a un mondo in cambiamento che richiede capacità di adattamento e velocità nelle decisioni. Stiamo comunque andando, viene detto, verso un mondo aperto e mobile in cui si diffonde una moderna democrazia con il suo portato di libertà individuale e di progresso economico.
Credo invece che nel mondo intero sia in corso un progressivo indebolimento delle istituzioni democratiche.
Molti sono i fattori che da tempo spingono in tale direzione.
Decisioni che coinvolgono la vita presente e futura di milioni di esseri umani sono prese da organismi estranei allo Stato nazionale in cui si svolge l’attività politica, da organismi privi di rappresentatività, come il Fondo monetario, la Banca mondiale, il WTO, oppure dalle grandi multinazionali, dalle grandi banche e da importanti holding finanziarie. Di una tale situazione, si era già reso conto nel 1989 Sergio Mattarella che, intervistato da Gianpaolo Pansa, disse: “In tutto l’Occidente è in corso un processo che spinge i veri centri di decisione a trasferirsi fuori dalla politica. Esiste davvero il pericolo che i partiti diventino una sovrastruttura che galleggia su altri centri di potere né palesi né responsabili”. E da allora il fenomeno è andato progressivamente crescendo.
Inoltre, da decenni, si è imposto un liberismo che affida agli automatismi del mercato (ritenuto capace di autoregolarsi) le risposte ai bisogni dei cittadini e ai problemi della società, mettendo ai margini la politica (che è tale solo se propone differenti opzioni), e con essa la democrazia. L’individualismo spinto, che ne è conseguito, ha allentato i legami interpersonali facendo venir meno quella coesione sociale indispensabile per la vita democratica. La frammentazione che ne deriva conduce gli individui a esprimere domande assai diversificate e contraddittorie, comunque difficilmente aggregabili in progetti. Senza di questi, è la stessa politica che muore, poiché, quella vera, è fatta di progetti.
In aggiunta, nei cittadini e nel ceto politico, diminuisce la capacità di comprendere la complessità del mondo contemporaneo con il crescente spazio occupato dagli aspetti tecnici e dalle problematiche scientifiche che sottendono le scelte. E ciò tanto più quanto maggiormente lo sviluppo è supportato da tecnologie dure, e incentrato su megastrutture e grandi complessi. Così nella società, cresce sempre più il ruolo dei tecnici (a cominciare dagli economisti) e si riduce quello della politica. Emanuele Severino prevede che nel mondo tecnocratico verso cui ci stiamo avviando non ci sarà più spazio né per l’umanesimo, né per la democrazia. In proposito, faccio presente che il tempo corre veloce, e quel domani tecnocratico è più vicino di quanto si pensi.
Nel frattempo, si va diffondendo tra la gente un senso di insicurezza a fronte di processi che appaiono fuori di ogni controllo (disoccupazione strutturale, aumento della criminalità, vasti movimenti migratori, modificazioni climatiche, degrado ambientale, crescita del debito pubblico, e altro ancora). Le paure e le preoccupazioni che ne conseguono forniscono un terreno fertile per l’affermarsi di governi forti, autoritari, che, alle tante persone disorientate e sfiduciate, possono apparire maggiormente in grado di far fronte alle emergenze, assumendo decisioni con prontezza ed efficacia.
C’è quindi da preoccuparsi per il futuro delle istituzioni democratiche. Battersi per la difesa degli spazi democratici garantiti dagli ordinamenti costituzionali può tuttavia non essere sufficiente. La democrazia non è pianta adatta a tutti i terreni. Se non si interviene sui fattori negativi sopraindicati, operando per un diverso modello di sviluppo (che non significa semplice crescita materiale), ogni battaglia in suo favore è destinata a fallire.


Carlo Baviera - 2015-03-12
Condivido pienamente quanto esposto in modo chiaro e lineare. L'impegno per la democrazia è ancora molto, anche se molti fra gli stessi "popolari" si sono adagiati al nuovo pensiero riformatore; il quale pensiero è come per il mondo del lavoro teso a "ristrutturare": là ristrutturazione uguale licenziamenti, qui riforme uguale meno partecipazione. Per questo serve un nuovo modello: di sviluppo e di cittadinanza