Da più parti si denuncia l’esistenza di un “pensiero unico” che caratterizza una società nella quale una serie di riferimenti “politicamente corretti” viene impiegata per limitare la libertà di parola e per condizionare i modi di vita. A sentire ciò, si indignano quanti ritengono che mai come oggi ci sia stata nel mondo una maggiore possibilità di circolazione e di comunicazione delle idee. Di fronte ai totalitarismi del “secolo breve”, o agli odierni regimi dispotici e oscurantisti, o ancora dopo i criminali attacchi terroristici agli organi di informazione da parte dei fondamentalisti islamici (come recentemente avvenuto a Parigi), sollevare critiche nei confronti della libertà di espressione che caratterizza l’Occidente è ritenuto equivalente a una bestemmia.
Ma non è sufficiente fare polemici paragoni con situazioni estremamente negative per assolvere incondizionatamente il mondo in cui viviamo. Occorre vedere quanto c’è di vero nella denuncia della “dittatura del pensiero unico”.
Alexis de Tocqueville, in “La Democrazia in America”, pubblicato nel lontano 1835, ha descritto agli europei la nascente società americana con le sue istituzioni innovative. Nel libro, l’autore evidenzia gli aspetti positivi del nuovo mondo, ma non nasconde quelli negativi. Scrive infatti: “In America, la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’interno di quei limiti, lo scrittore è libero, ma guai a lui se osa superarli. Non già che egli abbia da temere un autodafé, ma è esposto ad avversioni di ogni genere e a quotidiane persecuzioni. Prima di rendere pubbliche le sue opinioni, egli credeva di avere dei partigiani; ma, dal momento in cui si è scoperto a tutti, gli pare di non averne più, poiché coloro che lo biasimano si esprimono a gran voce, mentre coloro che pensano come lui, senza avere il suo coraggio, tacciono e si allontanano. Egli allora cede, si piega sotto uno sforzo quotidiano e rientra nel silenzio, come se provasse il rimorso di aver detto la verità”. Queste parole anche oggi suonano vere: capita di trovarsi in tale disagevole situazione a chi esprime idee e argomentazioni che, come, ad esempio, sui temi di bioetica, contrastano con quanto è ritenuto “politicamente corretto”.
Se quindi già in passato si era manifestata questa sorta di “dittatura della maggioranza” tesa ad escludere dal dibattito pubblico e dalla vita politica chi avesse una visione del mondo diversa dal sentire dei più, è tuttavia in tempi a noi vicini che il fenomeno ha assunto una dimensione rilevante e pericolosa.
Sentiamo in argomento quanto hanno detto alcuni sociologi e politologi che, pur avendo alle spalle percorsi politici ed intellettuali differenti, si trovano ad esprimere un giudizio in notevole misura convergente sul fenomeno in questione.
Christopher Lasch, sociologo statunitense, denunciava, già all’inizio degli anni Novanta, il venir meno della corretta informazione e del dibattito pubblico. Non è vero che la rivoluzione dell’informazione (televisione, settimanali, giornali) innalzi il livello dell’intelligenza pubblica. Al contrario, tali strumenti confinano la spettatore in una posizione passiva non avendo egli modo di partecipare al dibattito. La discussione è l’essenza della democrazia, e la democrazia è la forma di governo più educativa, quella che costringe i cittadini ad articolare le vedute, a metterle a rischio, a coltivare le virtù della chiarezza di pensiero e dell’eloquenza. Oggi, mentre vanno scomparendo i luoghi del dibattito (sezioni e circoli partitici e sindacali, club e associazioni politico-culturali, ecc.), la pubblicità, le inserzioni, e altre forme di persuasione commerciale vengono travestite da informazione, mentre sui media (stampa e televisione) i termini del confronto sono strettamente controllati da professionisti della comunicazione, portavoce (ben retribuiti) del pensiero dominante.
Luciano Canfora, storico e marxista non pentito, denuncia nella società attuale la sterilizzazione del dibattito, e rileva il prevalere di una unica visione del mondo, imposta alla massa delle persone. Un fondamentale strumento di potere è la costruzione dell’opinione pubblica attraverso i media e in particolare mediante la televisione. Il possesso di tali mezzi, con il conseguente controllo dell’informazione politica (vedi il caso Berlusconi), ha ricadute nell’ambito politico-elettorale; ma, per Canfora, questo è un aspetto minore poiché riguarda solo l’élite politicizzata. Molto più preoccupante è l’insieme di quanto il mezzo televisivo propone (dagli spettacoli alla pubblicità) perché, con il culto del successo e della ricchezza, e con la continua promozione delle merci, costituisce un colossale veicolo dell’ideologia dominante. I creatori di pubblicità sono i veri (e a loro modo geniali) intellettuali organici della vincente dittatura della ricchezza.
Secondo Luciano Gallino, professore emerito dell’Università di Torino, l’ideologia liberale ha penetrato ogni ambito della società fino a modificare la stessa natura antropologica delle persone. Il suo successo è il frutto di una lunga serie di fatti che hanno dato vita nel mondo a una vera e propria egemonia culturale. Oggi, è il ceto oligarchico liberale a imporre i propri valori e la propria ideologia alle classi popolari, svuotando di significato le istituzioni rappresentative democratiche non più in grado di recepire e rappresentare le esigenze dei ceti subalterni.
Per Marco Tarchi, politologo dell’Ateneo di Firenze, un ben preciso spirito del tempo modella la mentalità collettiva, diffonde un univoco credo nelle sue più variegate forme, delegittima ogni opinione che gli è avversa, disarma con le risorse della seduzione e della suggestione i potenziali oppositori. È realistico dire che la nostra, lungi dall’essere l’era della fine delle ideologie, ne ha portata al successo una sola, ovvero quella versione del liberalismo che della logica mercantile, dell’individualismo e del cosmopolitismo (tre aspetti strettamente interrelati) ha fatto i propri pilastri, e a questi intende ancorare l’intero pianeta.
Oggi, tuttavia, c’è chi dice che queste rappresentazioni non sono più attuali perché, grazie a internet, è in corso una rivoluzione in grado di rendere i cittadini protagonisti, sottraendoli al dominio dei media e quindi del pensiero unico. Per età e per personale difficoltà a navigare nel nuovo mezzo, non sono il soggetto più indicato a esprimere un giudizio in argomento. Però nutro molti dubbi in proposito.
La più parte di quanto circola in rete ha come destinatario un pubblico che in genere non sopporta la lettura di più dei 140 caratteri propri dei tweet, con i quali è difficoltoso esprimere ragionamenti o argomentazioni. Inoltre, coloro che intervengono sulla rete non sono immuni, nella grande maggioranza, da quei condizionamenti che manipolano i contemporanei, fin da bambini, con pubblicità e messaggi vari sempre in sintonia con il pensiero dominante. Certo, posso intravedere alcune opportunità, come quelle che scaturiscono dal moltiplicarsi dei giornali on line; ma questi hanno quasi sempre caratteristiche di nicchia, e quindi, essendo indirizzati a un numero molto limitato di lettori, non riescono a incidere significativamente sull’opinione pubblica.
Tuttavia, al di là delle opportunità offerte da internet, qualche segno di un possibile cambiamento ci viene da altri ambiti.
Bisogna riconoscere che ci sono voci autorevoli provenienti dal mondo cristiano in grado di superare le barriere edificate dall’ideologia dominante, voci che ottengono un crescente ascolto anche al di fuori della platea dei fedeli, fra i non praticanti, gli agnostici e i non credenti. Mario Tronti, filosofo, laico, protagonista di importanti battaglie della sinistra italiana, in una intervita ad “Avvenire” del 16 ottobre 2011 (in occasione della presentazione del manifesto su “L’emergenza antropologica per una nuova alleanza” sottoscritto con Pietro Barcellona, Paolo Sorbi e Giuseppe Vacca), ci spiega il perché di questa nuova attenzione ai messaggi religiosi, e in particolare a quelli di Benedetto XVI. La deriva della società occidentale, ci dice, coinvolge l’intera sfera dei valori a favore di una competizione selvaggia tra gli individui. Le persone abbandonate a se stesse, prive dei riferimenti elementari tradizionali (ad esempio la famiglia), sono condannate a concentrasi su obiettivi sbagliati dettati da un individualismo esasperato. In teoria, oggi si invoca come bene supremo la responsabilità dell’autodeterminazione; in realtà, non si fa altro che rivendicare il proprio diritto all’irresponsabilità, il diritto di fare quello che si vuole: qualsiasi desiderio deve essere sancito per legge, qualsiasi capriccio deve essere ratificato dal costume. Chi si oppone a questo meccanismo deve essere spazzato via, a partire dalla religione.
La deriva negativa che caratterizza il presente va messa in conto alla globalizzazione, che non riguarda solo l’economia, ma abbraccia tutti gli aspetti della vita da uniformare secondo quanto richiede il mercato planetario. Pertanto, un’altra nota di speranza viene dalla crescente opposizione che produce lo schiacciasassi della globalizzazione. Le reazioni di quanti non accettano di lasciarsi comprimere e omologare da essa sono destinate ad aumentare man mano che il carburante necessario ad alimentare la vorace macchina dell’economia globale si rende più difficile da reperire e si fanno più evidenti i guasti sociali e ambientali che essa produce.
Nel frattempo, è necessario impegnarsi per mantenere in vita ogni veicolo di idee libere, sia pure piccolo e limitato (come "Rinascita popolare"), in attesa che la voce della ragione torni a farsi sentire superando gli ostacoli che oggi le sono posti. |