Stampa questo articolo
 
Spese militari: parole e numeri
 
di Giuseppe Ladetto
 

Sugli organi di informazione e nei dibattiti televisivi, leggiamo e sentiamo tante parole sui più vari argomenti. Poi ci imbattiamo nei numeri, e talora quelle parole ci appaiono prive di senso perché non in sintonia con i numeri, o comunque incapaci di darci ragione di essi. Questo divario fra le parole e i numeri si verifica frequentemente sui temi di politica estera, dei quali, da tempo, l’opinione pubblica sembra interessarsi poco anche perché non sono più oggetto di dibattito politico: non entrano nemmeno nell’aspro confronto che divide il Partito Democratico.
Il presidente Obama, il premier britannico Cameron e il segretario della NATO Rasmussen hanno recentemente invitato gli europei a spendere di più per gli armamenti perché non si deve abbassare la guardia: c’è la minaccia russa all’Europa orientale e c’è il terrorismo da cui l’Occidente deve difendersi. Ci dicono che la spesa militare dell’Occidente è inadeguata, e che così l’Europa va incontro a gravi pericoli. Ora passiamo dalle parole ai numeri.
Tramite Google, è possibile consultare i rapporti dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) sulla spesa militare nel mondo. Nel 2009, gli Stati Uniti hanno speso 663 miliardi di dollari, i Paesi afferenti alla NATO complessivamente 1030 miliardi di dollari, la Cina 99 miliardi di dollari e la Russia 61 miliardi di dollari. Nel 2012, sempre secondo il SIPRI, la spesa globale è aumentata del 14%, principalmente ad opera dei Paesi emergenti, della Cina (giunta a 130 miliardi di dollari) e della Russia (arrivata a 69 miliardi di dollari), ma il quadro generale non risulta sostanzialmente modificato: oltre il 40% della spesa globale è attribuita ai soli Stati Uniti, mentre quella dei Paesi NATO complessivamente supera il 60% del totale. E ricordo che al restante 35-40% di spesa militare, contribuiscono anche nazioni (Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Arabia saudita, ecc.) non della NATO, ma comunque alleate degli USA.
I numeri ci impongono una domanda: per difendersi da chi Stati Uniti e alleati NATO hanno speso e spendono annualmente più di 1000 miliardi di dollari? Per difendersi dalla Cina che ne spende poco più di un decimo? dalla Russia che spende all’incirca quanto il solo Regno Unito (69 miliardi dollari), o quanto la sola Francia (67 miliardi di dollari)? forse dall’Iran (9 miliardi di dollari), o dal Venezuela (3,2 miliardi di dollari), o dalla Siria (1,9 miliardi)? Anche mettendo insieme tutti i presunti “cattivi”, la distanza tra la loro spesa militare e quella dei soli Stati Uniti resta grande.
C’è chi dice che i dati del SIPRI vanno presi con cautela in quanto le voci di spesa militare possono non essere sincere (ma ci sono metodi indiretti per stimarle, e il SIPRI è un istituto affidabile e considerato), o essere fornite in modo disomogeneo (ad esempio, nella spesa italiana è compresa quella per l’Arma dei Carabinieri operante essenzialmente come forza di polizia, ma può essere scorporata). Si aggiunge che molta della spesa americana è volte a mantenere il primato tecnologico negli armamenti: strana obiezione, come se ciò non avesse rilevanza sulle capacità militari. Tuttavia anche chi fa tali osservazioni riconosce che le spese militari dell'Occidente sono multiple rispetto a quelle del resto del mondo.

Veniamo ai presunti pericoli che giustificherebbero la spesa militare.
La Russia, viene detto, intende restaurare l’Unione Sovietica ed estendere il suo dominio all’Europa orientale. Ma ci vuole ben altra spesa militare (oltre a un’ideologia di portata mondiale, come il comunismo) per un tale progetto: non basta il 10% della sola spesa americana. La Russia è ancora una potenza nucleare, si aggiunge, e va tenuta a bada. Ma è il caso di chiedersi che fine abbiano fatto i vari trattati (Start 1, Start 2, Sort, New Start) con i quali Stati Uniti e Russia si impegnavano a ridurre le armi nucleari e i missili in loro possesso come primo passo verso il generale disarmo nucleare. Certamente non sono stati propizi a uno sviluppo dei negoziati vari gesti americani come l’estensione a est della NATO (venendo meno a impegni presi) e soprattutto la messa in opera dello scudo antimissile (ABM) alle frontiere russe, con la risibile motivazione di proteggere l’Europa dai missili iraniani e nordcoreani.
Che dire allora di fronte alla crisi ucraina, indicata come la prova dell’espansionismo russo? Viste le premesse (ampliamento ad est della NATO e scudo antimissili che altera il cosiddetto “equilibrio del terrore”), è comprensibile che la Russia non voglia vedere la NATO estendersi ulteriormente fino alle porte di casa e per giunta in Paesi che sono stati una sua componente per almeno due o tre secoli.
C’è poi il terrorismo da cui il mondo occidentale deve difendersi. Ma la lotta al terrorismo è faccenda di servizi segreti, di polizia, di corpi speciali di pronto intervento. È difficile credere che richieda centinaia di miliardi di dollari, anche tenendo conto della nuova minaccia del Califfato islamico in Iraq e Siria. Giustamente si dice che è preoccupante quanto accade in Medio Oriente e nell’Africa mediterranea, e che è legittimo intervenire. Tuttavia è lecito rimanere perplessi osservando che, ad agire da protagonisti e a indicare soluzioni, sono proprio coloro (USA, Regno Unito, Francia) che, avendo irresponsabilmente destabilizzato la regione per abbattere i governi di Iraq, Libia e Siria, hanno posto le basi del successo dei fondamentalisti dell’Isis, e sono quanti (Turchia, Arabia saudita, Qatar) hanno appoggiato o finanziato il fondamentalismo sunnita più estremo. Riguardo alle guerre contro i presunti “santuari” del terrorismo, o a quelle per “esportare la democrazia”, forse sarebbe meglio accantonarle, visti i risultati devastanti o inconcludenti in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria.
In ogni caso anche oggi, in tema di lotta al terrorismo, è sempre attuale quanto ha scritto nel 2004 il cardinale Joseph Ratzinger (Europa: i suoi fondamenti oggi e domani, Edizioni San Paolo). Il terrorismo rappresenta una sorta di nuova guerra mondiale. Di fronte ad esso non è praticabile un pacifismo assoluto che significherebbe soggiacere al diktat della violenza. Ma il terrorismo non può essere vinto facendo ricorso esclusivamente agli strumenti della forza. Perché la forza del diritto non si trasformi in arbitrarietà, essa deve sottostare a rigidi criteri. Devono essere ricercate e rimosse le cause del terrorismo, che spesso affonda le sue radici in preesistenti ingiustizie. Occorre spezzare il circolo vizioso dell’occhio per occhio, senza di che non c’è via d’uscita dalla violenza. Ad agire non deve essere un singolo potere, perché troppo facilmente possono entrare in gioco interessi propri, facendo perdere di vista ciò che è giusto. Urge un vero ius gentium senza mire e corrispondenti atti di predominio egemonico. Parole che dovrebbero essere meditate da quanti approvano guerre al terrorismo non certo immuni da interessi egemonici.

Allora, se la spesa militare degli Stati Uniti (e più in generale della NATO) non è per la difesa, come emerge dai numeri, a che scopo è fatta? E quanto vorremmo sentirci dire dai tanti che ne sostengono la necessità.
Sorge il fondato dubbio che tale enorme spesa militare abbia altri obiettivi rispetto alla difesa, e riguardi piuttosto la volontà di mantenere un ruolo egemonico da parte degli Stati Uniti, che continuano a ritenersi una “nazione eccezionale e indispensabile”, come più volte hanno detto i suoi presidenti. Ma è velleitario e pericoloso non prendere atto che gli equilibri planetari sono cambiati e che nessuna potenza può aspirare a una leadership incontrastata in un mondo ormai destinato a diventare multipolare.
Inoltre, va considerato un altro aspetto. Fabio Mini (generale dell’esercito italiano, già comandante di una operazione di peace–keeping nei Balcani, nel volume La guerra dopo la guerra: soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale) evidenzia che la violenza è una necessità fisiologica per quella parte del mondo – di cui facciamo parte anche noi – che gode del benessere. Mentre chi non ha niente da perdere non ha paura di nulla (nemmeno della morte), chi ha molto (anzi, troppo) ha sempre paura, vive nella paura, vede pericoli e potenziali nemici ovunque. E la conseguenza della paura è la guerra preventiva. Questa non è basata su una reale minaccia, ma sulla presunzione delle intenzioni dell’avversario di turno, indipendentemente dalle sue vere capacità di offesa. In quest’ottica, la sfida che gli Stati Uniti (e più in generale l’Occidente) ritengono di dover sostenere è quella di difendersi contro l’incognito, il non visto, l’inaspettato.
In ogni caso, i numeri ci dicono che le enormi spese militari dei Paesi occidentali non hanno una motivazione difensiva reale e quindi una giustificazione sotto quest’aspetto. Se poi esse sono dettate dal non confessato obiettivo di mantenere il controllo di quelle risorse che il colonialismo vecchio e nuovo ha loro concesso, allora si tratta di una motivazione ancor più inaccettabile in un mondo dalle troppe disuguaglianze.
Ancora oggi, viviamo sotto la minaccia delle armi nucleari, e non c’è giorno che, in qualche luogo, non ci siano popolazioni coinvolte in quelle che per noi fino a ieri erano guerre lontane, oggi divenute prossime. Ha ragione il Papa quando afferma che stiamo assistendo ad “una guerra mondiale a pezzi”. La pace è un valore in sé. Bisogna rifiutare il ricorso alla guerra come mezzo risolutivo delle questioni internazionali e, come logica conseguenza di questo rifiuto, chiedere la riduzione degli armamenti e della spesa militare. Anche la spesa militare italiana (compresa tra 34 e 37 miliardi di dollari annui, a seconda delle modalità di conteggio) non è affatto modesta, come si sente diffusamente sostenere: si colloca intorno all’ottavo-nono posto nella graduatoria mondiale; è pari a quella dell’India (36 miliardi di dollari), il secondo Paese più popoloso al mondo, ed è superiore a quella del Brasile (27 miliardi di dollari), una delle potenze emergenti. C’è la necessità di destinare ad altri fini le enormi somme di denaro spese annualmente nel mondo per le armi e per la guerra: aiutare i Paesi più poveri a trovare una propria autonoma strada di crescita economica e sociale e avviare il riordino delle strutture dell’economia odierna, ponendo riparo ai guasti inflitti a questa nostra Terra da uno sviluppo predatorio.


Monica Canalis - 2014-12-13
Sottoscrivo anch'io tutte le considerazioni di Giuseppe Ladetto e ne aggiungo una: l'Europa è debole anche perchè non ha una Politica di Difesa comune, che farebbe risparmiare il continente nella sua complessità, azzerando le spese militari su base nazionale, e sarebbe un passo importante verso una sovranità reale. Un'Europa con un'unica politica di difesa saprebbe affermare con più forza il suo marchio distintivo, il soft power.
Carlo Baviera - 2014-12-11
Ottimo articolo. E ottimi i commenti. Ovviamente molti, anche fra i cattolici democratici, diranno che si tratta di esagerazioni e che "non bisogna abbassare la guardia": riterranno le considerazioni come posizioni di belle anime poco in grado di guidare uno Stato. Salvo, poi, applaudire alle parole del Papa sulla pace. Già nell'Appello ai Liberi e Forti si apprezzava che le "Nazioni vincitrici si riuniscono per preparare le basi di una pace giusta e durevole", invitando "i partiti politici di ogni paese debbono contribuire a rafforzare quelle tendenze e quei principi che varranno ad allontanare ogni pericolo di nuove guerre, a dare un assetto stabile alle Nazioni, ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le enrgie spirituali e materiali di tutti i paesi uniti nel vincolo solenne della Società delle Nazioni"; e il Punto XII del Programma PPI parlava di . Anche l'Europa è nata in una logica di collaborazione fra Stati per evitare nuove guerre (almeno sul suolo continentale). Le logiche militari delle Alleanze o delle lobbies delle armi ci stanno convincendo a compiere altre scelte: disastrose
Franco Campia - 2014-12-10
Esprimo il consueto, vivo apprezzamento per l'articolo di Ladetto. Ne raccolgo due spunti. Il primo: premesso che non sono mai stato animato da un aprioristico e radicale antiamericanismo (anzi...), mi sembra che le critiche espresse nell'articolo sugli orientamenti della politica estera degli USA e supporters, Regno Unito in testa, siano assolutamente motivati. Penso ancora con un brivido agli sforzi per forzare la UE ad accogliere al suo interno l'allora loro fida alleata Turchia; sforzi che, se non ricordo male, non vedevano ostili nè Prodi nè Berlusconi. Inoltre assisto con preoccupazione al processo, molto sotto traccia, per il nuovo trattato commerciale trans atlantico. Il secondo: il nostro Ministero della Difesa piange per i tagli e qui si rientra nella tematica trattata nell'articolo; da estraneo alla materia non sono però in grado di valutare a che punto siamo nel processo di drastica trasformazione della struttura delle nostre FF.AA, processo che comunque comporta il passaggio da un formato "extra-large" a uno "slim", con evidenti problemi anche nella gestione delle risorse umane e dell'ammodernamento tecnologico.
Andrea Griseri - 2014-12-09
Come sempre, ringrazio Ladetto per la lucidità della sua analisi. Aggiungo che qualcuno potrebbe sottolineare la ricaduta positiva sull'innovazione tecnologica e sul PIL della ricerca e produzione di armamenti ma anche accogliendo questa (cinica) argomentazione esiste una sproporzione fra l'entità della spesa , le reali minacce e gli effetti indotti. Gli antichi coniarono il detto ocmune si vis pacem para bellum ma oggi ci troviamo di fronte a una guerra strisciante ( esattissima l'analisi papale) ora a bassa ora a alta intensità) e non si vuole realmente la pace ma la perpetuazione di questo stato di perenne conflittualità.