In questi giorni, i giornali riportano il caso del liceo Botta di Ivrea dove una professoressa è stata accusata di omofobia e messa al bando dagli studenti per aver scritto, in un bollettino parrocchiale di Rivarolo, che omosessualità ed eterosessualità non sono equivalenti e non possono essere messe sullo stesso piano. Certo, l’insegnante ha fatto altre affermazioni poco meditate e non condivisibili. Tuttavia, se quanto ha scritto può legittimamente venir criticato, non è accettabile che venga censurato e che diventi pretesto per ostracizzarla.
Non si può dimenticare che tutta l’evoluzione della vita sulla terra (che ha condotto dai microrganismi agli esseri umani) ha al suo centro la riproduzione e – a partire da un certo livello evolutivo – le cure parentali, volte ad assicurare il successo della prole.
Si dice che oggi la tecnologia assicura possibilità riproduttive anche agli omosessuali, così come ai single. Tuttavia le tecniche in questione (fecondazione eterologa, trasferimento di embrioni, uteri in affitto) intervengono sul solo apparato riproduttivo. Ma tutto l’essere umano (come accade anche per ogni animale) è costruito per garantire la continuità della vita e la trasmissione del proprio patrimonio genetico. Ciò investe anche la sfera degli istinti più vitali e delle emozioni profonde che presiedono ai comportamenti.
La ricerca etologica, l’antropologia evolutiva e le acquisizioni delle neuroscienze mostrano che la nostra specie è ancora guidata da complesse emozioni ereditarie e da canali di apprendimento prestabiliti. Se consideriamo la rilevanza che hanno avuto e hanno le modalità riproduttive e i ruoli funzionali dei genitori nella cura della prole per garantire l’affermazione e la sopravvivenza della nostra specie, risulta irragionevole immaginare che, su tali vitali funzioni, l’evoluzione non abbia investito molto in termini di elementi comportamentali geneticamente condizionati: pensiamo all’istinto materno che la nostra specie condivide con tutti i mammiferi, con la più parte degli uccelli, e perfino con non poche specie di rettili e di pesci.
In tale senso, è arduo sostenere che l’eterosessualità e l’omosessualità debbano essere ritenute equivalenti.
Ma ci sono quanti addirittura dicono che il crescente sviluppo delle tecniche di fecondazione assistita e quelle di trasferimento embrionale, sempre più sofisticate ed efficaci, e prossimamente la clonazione riproduttiva, stanno rendendo obsoleti i concetti stessi di paternità e di maternità basati sui dati biologici. Affermazione pericolosa perché trascurare la dimensione biologica dell’essere umano (che ha al suo centro la trasmissione del patrimonio genetico) significa ignorare le profonde emozioni scatenate da ogni violazione degli istinti più vitali, compresi quelli che presiedono ai comportamenti caratterizzanti il ruolo riproduttivo e genitoriale.
Ciò che è accaduto nella scuola di Ivrea è in sintonia con la brutta aria che tira in Europa, dove ormai si censurano le opinioni, le idee e le manifestazioni del pensiero. Il primo passo è consistito nel criminalizzare chi nell’esprimersi non si assoggetta al politicamente corretto. Oggi si fa strada anche la richiesta di sanzioni di vario tipo nei confronti di chi comunque osi violare tale tabù. Sentiamo dire che la libertà di espressione deve avere dei limiti perché la democrazia non può accettare che si esprimano opinioni antidemocratiche; e ovviamente è considerato antidemocratico tutto ciò che non si conforma al pensiero dominante.
Eppure la libertà di espressione non dovrebbe riguardare solo chi esprime opinioni ritenute opportune o su cui c’è consenso, ma in primo luogo quelle che non condividiamo o che addirittura troviamo detestabili. Le manifestazioni del pensiero, quando ritenute sbagliate, vanno contrastate con argomentazioni, e non con la censura e la repressione. In proposito, vale ancora oggi quanto affermava Voltaire dicendosi pronto a morire per consentire ai suoi avversari di esprimersi.
Di fronte alle crescenti tensioni, alle paure, al disorientamento e alle divisioni che minano l’odierna società, gli esponenti dell’élite di orientamento liberal (ma non solo loro perché il fenomeno si va estendendo) immaginano che tali divisioni profonde possano essere colmate ricorrendo a un linguaggio purgato ed emendato, ovvero “politicamente corretto”. Migliorando il linguaggio nei confronti delle persone, dei gruppi minoritari e degli emarginati e mettendo al bando appellativi ritenuti poco rispettosi, pensano di favorire negli esclusi l’autostima e la fiducia in se stessi, e quindi il senso di responsabilità e la capacità di iniziativa. Ma le parole non creano le situazioni di disagio e di emarginazione; semplicemente le registrano. Solo cambiando la realtà di tali situazioni, le parole assumeranno un altro significato.
Aggiungo che emendare il linguaggio è un percorso che può portare a sviluppi ed esiti imprevisti e negativi. Scrive il sociologo americano Christopher Lasch che negli Stati Uniti, per non creare disagio nelle minoranze, si è talora giunti a mettere al bando nelle scuole i testi e le opere della grande cultura europea, ritenuta maschilista, eurocentrica, bianca, omofobica, passatista ecc. Vengono così a mancare nella società fondamenti culturali sicuri e condivisi, e, in loro assenza, l’unico esito possibile è uno scetticismo radicale non distinguibile dal nichilismo.
Anche da noi, dopo che vocaboli come “cieco”, “sordo”, “disabile”, “spazzino”, “bidello” ecc. non hanno più corso, c’è chi periodicamente si fa avanti, seguendo esempi di altri Paesi, per introdurre nei documenti i termini di “genitore 1” e “genitore 2” al posto delle tradizionali dizioni di “padre” e “madre”. Ovviamente ciò avviene per andare incontro alle esigenze delle coppie omosessuali e alla loro volontà di adottare o avere bambini. Si rimuovono pertanto parole che richiamano una realtà alla quale non sono riconducibili due “genitori” dello stesso sesso. Per i media di ispirazione liberal, ad avversare queste novità sarebbero solo i cattolici, e per di più quelli reazionari, le cui idee sono ormai sempre più minoritarie. Si tratta del solito tentativo di rinchiudere in uno ristretto recinto tutti quanti non si allineano al conformismo imperante.
Io dissento da tali presunte innovazioni e tuttavia sono agnostico in tema di religione. Non penso di essere reazionario, quanto meno nel senso che storicamente viene dato a questo termine. Neppure mi importa se le mie idee siano o meno minoritarie: l’opinione della maggioranza non diventa mai, come ha scritto Alexis de Tocqueville, un criterio di verità. Inoltre, credo che l’avversione a tali novità sia molto più estesa di quanto si dice. I ceti popolari sono in prevalenza ostili ad esse, ma in genere non hanno strumenti per manifestare la loro opinione in argomento. Oggi, poi sono presi soprattutto dai problemi della sopravvivenza quotidiana in un momento assai difficile. Aggiungo che molte persone contrariate da tali iniziative tacciono perché intimidite dai fautori del discorso politicamente corretto, sempre dominanti nei media. Perfino tra i cattolici impegnati in politica, con ambizioni di successo, si riscontra talora una qual certa prudenza in materia, che li induce a minimizzare il problema.
Invece la questione è importante. Rilevo che in tutte le lingue del mondo, in quelle oggi parlate e in quelle di ieri ormai tramontate, ci sono i vocaboli “padre” e “madre”(e frequentemente anche quelli più familiari di “papà” e “mamma”) che indicano due figure distinte e distinguibili per caratteristiche, ruoli e funzioni. Le parole hanno un significato che va oltre la semplice esigenza di comunicazione: esprimono i concetti che, nel pensiero, danno forma alla realtà.
Quando in una società si censurano i vocaboli, significa che in essa si sta affermando una componente che si pone fuori della realtà, una realtà che infatti respinge e intende piegare ad una concezione ideologica. Sempre chi ha intrapreso o intraprende questo cammino finisce per dar vita a costruzioni totalitarie. |