“Se è notte, si farà giorno!”. Era la frase con la quale, durante le tempestose giornate della guerra partigiana, l’allora partigiano Tommaso Moro rincuorava gli amici e compagni della Brigata Garibaldi e del CLN di Ravenna di cui faceva parte.
Ed è stata la frase con la quale, decenni dopo, da segretario nazionale della Democrazia Cristiana, l’uomo politico Benigno Zaccagnini, ha sostenuto e confermato tanti Italiani che nella “notte della Repubblica” si aggiravano nel timore di perdersi.
Sono passati 25 anni da quando Zac è andato avanti.
Tanti e pochi al tempo stesso.
Tanti per il metro della politica di oggi, che nella sua compressione tra presentismo e rinnovamento perde talvolta di vista i punti di riferimento storici.
Pochi per il metro della Storia, che nei vorticosi passaggi tra Prima, Seconda e Terza Repubblica assiste ad un Paese le cui classi dirigenti sembrano essere sempre lanciate verso l’eterna ricerca della palingenesi anziché impegnarsi nella evoluzione riformatrice delle culture politiche e delle architetture istituzionali, con il rischio di perpetuare il gattopardismo.
Ricordare politicamente Zaccagnini, a venticinque anni di distanza, significa anche evitare di cadere nell’immagine stereotipata, stile santino agiografico, dei luoghi comuni con il quale la pubblicistica ne ha spesso liquidato l’azione politica.
E i tratti politici, le lezioni che Zaccagnini ci consegna, per la nostra azione di oggi e di domani, sono molti. Condensabili in almeno tre caratteristiche
La prima, di impronta chiaramente morotea, ci consegna l’imperativo che la Politica debba essere fondata su un sistema di valori ideali, etici e spirituali, e debba definire un perimetro progettuale e degli obiettivi da raggiungere, pena il suo annacquamento e il suo svilimento a mera gestione del potere, dando vita a un galleggiamento e a una autoconservazione dei ceti dirigenti che conduce a necrosi le strutture istituzionali.
La seconda ci rimanda all’esigenza che la politica sia “popolare”, cioè nel segno del perseguimento del bene comune avendo come punto di riferimento la persona e la comunità, secondo i principi di autonomia e di laicità. Le sue affermazioni contro il rifiuto della DC come partito conservatore e, di conseguenza, contro il ruolo ancillare dei partiti nei confronti dei mercati e dei mercanti, ci dicono molto anche per oggi, e per il domani.
La terza richiama la necessità di ricercare sempre, nell’azione riformatrice naturale per ogni politico che non si ritiene conservatore, l’obiettivo al quale tendere, e di far seguire le fasi della strategia e della tattica alla definizione e alla scelta del tipo di società che si intende realizzare. Che per lui era, ovviamente, una società più giusta, più libera, più aperta.
Era da ciò, infatti, che discendevano le necessità di concordare con i partiti le scelte e le azioni di governo, anche con chi – come il PCI – al governo non ci stava ma che si riteneva allora essenziale per la tenuta e il rinnovamento democratico delle istituzioni repubblicane.
Senza cedimenti sui valori di fondo. E senza vivere solo di idealismi generici. Anche se pochi lo ricordano, Zaccagnini fu il segretario della DC che votò e fece votare per gli euromissili, una scelta che nel 1979 era contrastata e difficile ma che, a ritroso, si rivelò una pietra miliare per lo sgretolamento del blocco sovietico e il successivo crollo del muro di Berlino da lui profetizzato.
Era “un riformista con l’animo del rivoluzionario” per dirla con le parole di Corrado Belci. La sua eredità va custodita e rilanciata, perché l’Italia possa uscire dall’ennesima notte che ha imboccato e torni a rivedere la luce dell’aurora. |