In presenza delle pesanti conseguenze di ordine sociale prodotte dalla crisi ancora in corso, nel dibattito politico è scomparso ogni accenno alla sostenibilità dell’attuale modello economico-produttivo. La questione della mancanza di lavoro è diventata la preoccupazione prima, e, per creare occupazione, tutte le speranze sono riposte in un rilancio dei consumi che rimetta in marcia la produzione e con essa l’economia.
Tuttavia, se pure da una ripresa dei consumi potrà nascere una qualche occasione di lavoro per i tanti in cerca di occupazione, è lecito dubitare che ciò rappresenti la soluzione per una disoccupazione ormai diventata strutturale alla cui base ci sono molteplici fattori.
Fra questi, come denunciato da Jeremy Rifkin (in La fine del lavoro) e riconosciuto nell'enciclica Laborem exercens, c’è in primo luogo l’introduzione generalizzata dell’automazione e dell’informatizzazione nei processi produttivi; c’è il costo crescente dell’energia e delle materie prime; c’è la concorrenza dei Paesi emergenti dove, per una serie di motivi, i costi produttivi sono enormemente più bassi rispetto a quelli delle economie avanzate. Sono tutti fattori che, nei Paesi più sviluppati, impongono un riordinamento radicale delle strutture dell’economia, una ridistribuzione e riqualificazione del lavoro. E, inevitabilmente, una diminuzione del benessere materiale.
Ma al momento non sembra esserci spazio per mettere in discussione il credo economico dominante. Anzi, nei media, non mancano periodiche irrisioni alla decrescita teorizzata da Serge Latouche, ritenuta una eresia riconducibile a una sorta di nuovo millenarismo. Ciò malgrado, anche nel nostro Paese, sono stati recentemente pubblicati libri che si rifanno in qualche misura a una prospettiva di decrescita. Ricordo Manifesto per la felicità di Stefano Bartolini, L’Economia giusta di Edmondo Berselli, La grande transizione di Mauro Bonaiuti, La decrescita. Un mito post-capitalista di Giuseppe Giaccio.
Elemento comune di tali opere è la denuncia della irragionevolezza della società contemporanea quando pretende di crescere all'infinito in un mondo finito. Le conseguenze di tale pretesa sono evidenti: devastazioni ambientali e mutamenti climatici provocati dall'enorme consumo energetico necessario a far funzionare il sistema; crescente aumento delle differenze di reddito tra Paesi e tra individui, o fra vincitori e sconfitti nella competizione sempre più accanita; migrazioni incontrollate; cancellazione delle specificità e delle culture in nome della globalizzazione dei mercati e della conseguente uniformazione dei consumi; crescente disoccupazione e sottooccupazione. Tuttavia si continua a pensare che, per far fronte alle emergenze provocate da questo modo di agire e per risolvere i problemi che la crescita crea, la soluzione consti nella sua continuazione e nel suo rilancio. E tutto ciò mentre già consumiamo risorse naturali in misura superiore a quanto il pianeta sia in grado di riprodurre e produciamo più inquinamento e più rifiuti di quanto il pianeta possa metabolizzare. Inoltre, miliardi di esseri umani vivono ancora in condizioni di estrema difficoltà. In molti Paesi africani (ad esempio in Eritrea, Liberia, Burundi, Zimbabwe, RD Congo, Somalia) il reddito pro capite medio giornaliero (e, sottolineo, medio) è inferiore ai 2 dollari. Eppure sentiamo dire che, per il rilancio dell’economia mondiale, è un fatto positivo che riprendano i consumi dell’americano medio, il maggior consumatore di risorse e il maggior produttore di gas serra del mondo. Nel contempo, nei Paesi emergenti, si inseguono i nostri standard di consumi palesemente insostenibili.
Per Marco Bonaiuti, la decrescita non è un progetto politico-ideologico che disegna un’utopia, ma sarà (e in parte è già) la conseguenza di processi reali inevitabili. È la stessa conclusione a cui giunge un recente rapporto commissionato dalla NASA (vedi “La Stampa” del 20/3/2014), per il quale l’attuale civiltà industriale è giunta al capolinea. Bisogna pertanto prendere consapevolezza di questo fatto per limitarne l’impatto negativo sul piano sociale, cogliendo l’opportunità che ci offre per dare vita a una società più sostenibile, più autonoma e più equa.
Per i fautori della decrescita o dell’economia stazionaria, che vengono talora definiti “obiettori di crescita”, non si tratta di ritornare a un passato preindustriale, come falsamente scrivono i loro detrattori. L’obiettivo è realizzare un sistema produttivo in cui il prelievo delle risorse rinnovabili e la produzione di inquinanti e rifiuti siano ricondotti a dimensioni compatibili con l’equilibrio planetario ovvero con le possibilità di questo unico pianeta in cui viviamo.
A tale fine, vanno rivisti i modi di vita attuali e soprattutto ridotti i consumi materiali, ciò che non significa vivere peggio. Occorre produrre beni di lunga durata, di qualità, ancorché più costosi, in grado di soddisfare bisogni reali. Oggi invece si producono merci concepite solo per incrementare i consumi. Tali sono quei prodotti “usa e getta” di basso costo a scapito della durevolezza; quelli rapidamente obsoleti per il non disinteressato succedersi delle mode; e altrettanto i beni "status symbol", che illudono gli ingenui facendo credere loro di aver, grazie ad essi, conquistato i piani alti della scala sociale; e infine quei prodotti cui la pubblicità associa emozioni (successo, inclusione sociale, felicità) che essi non possono certo assicurare. Così i beni messi sul mercato non hanno più il compito di soddisfare bisogni reali. La cultura del consumo promossa dall'attuale economia del mercato globale mira esclusivamente a esaltare la domanda, al fine di far girare la ruota dell’economia.
Una tale economia fondata sull'esaltazione dei consumi risulta distruttiva non solo per l’ambiente naturale, ma incide negativamente anche sulla vita sociale e sulla stessa condizione mentale dei contemporanei affetti da una bulimia consumistica, causa ed effetto di un rapporto squilibrato con loro stessi e con la realtà che li circonda. Il consumismo isola l’uomo e ne fa un individuo teso a massimizzare la propria soddisfazione momentanea, perché solo nell'atto di acquistare si sente un soggetto capace di fare scelte. Infatti, nella vita di tutti i giorni, i più (che non sono i pochi vincenti nella competizione che permea la società) si sentono impotenti perché in tutti gli ambiti, ad esclusione del momento in cui acquistano, sono costretti a subire le decisioni altrui (dei vincenti).
Gli “obiettori di crescita” intendono costruire una società a misura d’uomo, concepito come un soggetto che si realizza compiutamente nelle relazioni con gli altri, con i quali è portato a collaborare e non solo a competere. Non si tratta di creare un mondo idilliaco, ma di superare o risolvere i molti conflitti odierni avendo come orizzonte il bene comune. In contrapposizione con l’attuale società che, identificandosi con l’intero mondo, appare sempre più inconoscibile e incontrollabile, il progetto di decrescita è orientato a spostare il baricentro dell’economia verso la dimensione locale, per favorire il controllo partecipato dei processi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Le municipalità e le regioni, intese come entità spaziali omogenee che coincidono con una realtà geografica, sociale e storica, sono i luoghi più idonei per creare una rete di relazioni solidali volta a rafforzare il tessuto sociale e democratico e per mettere in campo strumenti che permettano di fare fronte alla minore disponibilità di risorse.
La prospettiva di crescita illimitata che caratterizza la dominante teoria economica non è altro che un aspetto di quel rifiuto del limite che permea tutto il pensiero dell’uomo contemporaneo, connotato dal desiderio, ormai sempre più diffuso anche tra la gente comune, di superare la propria condizione di finitezza, di essere perennemente giovane, sano, bello, ricco e di vivere un proprio progetto di vita senza obblighi e responsabilità verso gli altri.
Oggi l’uomo tecnologico, fratello siamese dell’uomo economico, dopo aver proclamato il suo dominio assoluto sulla natura, aspira manifestamente a rifare il mondo giudicato irrazionale, per crearne uno artificiale a sua misura. Dobbiamo restare inerti di fronte a questa prospettiva? In passato, il primo a obiettare fu il Padre Eterno quando (Genesi 11, 1-9), confuse, differenziandola, la lingua allora parlata da tutti, mettendo lo scompiglio tra quegli uomini che, mossi da delirio di onnipotenza, volevano costruire una città nuova munita di una torre la cui cima toccasse il cielo. Che cosa allora dovremmo dire a quanti oggi si misurano nella folle corsa a costruire edifici sempre più alti che non trovano alcuna ragionevole giustificazione se non quella di stupire chi li guarda come segni di potenza del committente (le multinazionali, le banche e il capitale finanziario internazionale) e di spregiudicata modernità dell’architetto, diventato star mediatica?
Ma le velleità dell’uomo tecnologico vanno ben oltre la costruzione di grattacieli sempre più alti. Oggi aspira a prendere nelle proprie mani l’evoluzione della specie umana per dare vita a un “uomo nuovo” geneticamente modificato e dotato di appendici tecnologiche per interagire col mondo artificiale che intende costruire. Già in passato i tentativi di creare un “uomo nuovo”, agendo sull'ambiente sociale e culturale, si sono tradotti in costruzioni mostruose. Ha scritto Hans Jonas che la tendenza, propria della nostra specie, a immaginare utopie si è trasformata, tramite i nuovi strumenti tecnologici, da gioco intellettuale in capacità di elaborare progetti realizzabili. Dovremmo tuttavia chiederci se abbiamo i requisiti necessari per una tale impresa creativa e se abbiamo il diritto di fare ciò.
Ma è una domanda che non sembra poter fermare l’uomo tecnologico. Oggi si possono leggere, anche su riviste scientifiche, prefigurazioni di un futuro che vanno oltre le più ardite fantasie degli scrittori di fantascienza. La specie umana si accingerebbe a rompere le barriere che la natura le ha imposto: presto, ci dicono, non si porranno più i problemi delle malattie, della cura del corpo e della morte, mentre la Terra diverrà la piattaforma da cui iniziare il popolamento dei pianeti, anche di lontani sistemi stellari, idonei a essere colonizzati.
Dopo aver proclamato la morte di Dio, ora il moderno uomo tecnologico non nasconde più l’aspirazione a sostituirsi a Lui.
Per ridimensionare questo delirio di onnipotenza, questa hybris, sono più che mai attuali le parole che Giacomo Leopardi, nel Cantico del gallo silvestre, ha affidato a questo mitico animale: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna, parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso”. |