Stampa questo articolo
 
Articolo 18, simbolo da colpire
 
di Aldo Novellini
 

Il Jobs Act ha iniziato il suo cammino con il transito in Senato e adesso approderà alla Camera. Se a Montecitorio non saranno introdotte modifiche, potrà partire da quel momento l'emanazione dei decreti attuativi che consentiranno anche di meglio comprendere il nuovo assetto del mondo del lavoro i cui contorni oggi risultano ovviamente ancora piuttosto sfocati.
Si può tuttavia provare a fare qualche riflessione sul nuovo contratto a tutele crescenti che rappresenta uno degli architravi del nuovo sistema.
Qui siamo in presenza di un contratto a tempo indeterminato che dovrebbe, proprio perché dotato di evidenti caratteri di stabilità, divenire la principale forma contrattuale usata dalle imprese. Questo però potrà accadere a tre condizioni.
La prima è che vengano eliminate molte tipologie atipiche (co.co.pro, finte partite IVA, ecc..) che sono più convenienti in quanto offrono meno protezioni ai lavoratori. In secondo luogo occorre che quelle forme atipiche, da mantenere comunque in vigore perché rispondenti, come il contratto a termine, a precise ed effettive esigenze aziendali, vengano a costare di più a livello contributivo. Terza e ultima condizione, ridurre fortemente – come pare stia pensando il governo – i contributi del modello a tutele crescenti per i primi due o tre anni di assunzione. In mancanza di queste tre misure di accompagnamento vi è il serio rischio che questo nuovo contratto resti sottoutilizzato.
Il nuovo modello è poi caratterizzato da una fase transitoria – il primo triennio dopo l'assunzione – nel quale il lavoratore non gode delle piene tutele assicurate normalmente nel contratto a tempo indeterminato. E qui ci riferisce in particolare al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, così come è sancito dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che, peraltro, si applica soltanto alle imprese con più di 15 dipendenti. Se questa deroga fosse effettivamente transitoria, con il ripristino, passati i tre anni, di tutte le garanzie, il meccanismo potrebbe anche avere senso. Il fatto è che a un certo punto il governo ha, inspiegabilmente, alzato la posta, decidendo di ridurre la portata del reintegro ai soli licenziamenti discriminatori, escludendo invece dall'ombrello protettivo i licenziamenti economici e buona parte di quelli disciplinari.
Il superamento dell'art.18, che non faceva parte del programma elettorale del PD per le politiche 2013, né di quello con cui Renzi è asceso alla segreteria del partito, è in buona sostanza divenuto un'ossessione. Quasi che tutti i problemi di elevata disoccupazione e di scarsa crescita, siano imputabili a un articolo di una legge in vigore da quarantaquattro anni.
Per fare un po' di chiarezza è bene sottolineare quanto sia fuorviante l'idea, sostenuta più volte dal premier, che con il reintegro vi fossero lavoratori di serie A e di serie B, i primi protetti da questa tutela e gli altri esclusi. Il fatto è che disciplinare in modo differente situazioni o realtà diverse, quali sono le grandi o le piccole imprese, non viola affatto il principio di eguaglianza. La ridotta dimensione aziendale è infatti caratterizzata da uno stretto rapporto del lavoratore con il datore di lavoro per cui non avrebbe senso reintegrare la persona licenziata in quel medesimo ambiente dalla quale è stata allontanata e dove probabilmente è ormai venuta meno la reciproca fiducia tra le parti. Diverso invece il caso delle grandi realtà produttive ove non vi è praticamente alcun rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro. In questo caso abolire il reintegro in caso di licenziamento immotivato (perché questo tipo di condotta tutela l'art.18) significa concedere mano libera all'imprenditore, rischiando poi di colpire non tanto le persone poco produttive quanto quelle più scomode. Ben sapendo, per di più, che qualsiasi impresa di grandi dimensioni, multinazionali comprese, avrà sempre buon gioco a dichiarare la propria situazione di grave difficoltà economica per giustificare i licenziamenti. Siamo insomma di fronte a un serio passo indietro del mondo del lavoro, con un intervento che ha voluto colpire un simbolo e non tanto risolvere un problema reale.
Se infatti si riteneva che l'art.18 fosse realmente un ostacolo alla crescita dimensionale delle imprese, nel senso che l'assunzione del sedicesimo lavoratore veniva scoraggiata dalla presenza di questa tutela, si poteva semplicemente innalzarne la soglia di applicazione, passando dagli attuali 15 a 20 o 25 lavoratori, magari per un periodo transitorio di tre anni. A quel punto si era in grado di valutare l'esito di questa operazione, rendendo definitivo l'innalzamento se avesse portato ad una significativa crescita delle aziende, oppure tornando alla vecchia soglia se tale risultato non si fosse verificato.
Ancora una volta invece il governo ha preferito la facile demagogia a una ponderata ragionevolezza. Non è la prima volta. Sembra ormai il marchio di fabbrica della gestione renziana ma è un metodo politicamente arrischiato. Non a caso gli iscritti al PD sono fortemente calati rispetto agli anni scorsi ed è ben possibile che alla prossima tornata elettorale, qualunque essa sia, possano calare anche i voti nelle urne, rispetto a quel 41 per cento, tanto sbandierato quanto un po' frutto di circostanze irripetibili.


franco maletti - 2014-11-05
Nel caso di licenziamento illegittimo accertato, l'alternativa è tra il congruo risarcimento o la reintegra al proprio posto di lavoro. Nel secondo caso, (e non solo a mio parere) significa soltanto dare al datore di lavoro l'opportunità di fare un nuovo licenziamento senza più commettere errori. Solo il lavoratore a tempo indeterminato che considera da parte del suo datore di lavoro "l'obbligo di adozione a prescindere" può pretendere l'applicazione integrale di una simile aberrazione. Caso diverso se si tratta di un lavoratore licenziato per motivi sindacali. Ma, in questa ultima ipotesi, o il consenso dei lavoratori nei suoi confronti viene manifestato, oppure i lavoratori stessi lo considerano un "disturbatore" sostenendo di fatto la decisione del datore di lavoro. Comunque sia, quel lavoratore reintegrato, o farà carriera all'interno del sindacato (e quindi al di fuori dell'azienda in distacco sindacale), oppure gli converrà trattare il maggior risarcimento possibile in cambio delle sue spontanee dimissioni.
Giorgio merlo - 2014-11-04
Che dire Aldo? Hai semplicemente ragione. L'art.18 non era nient'altro che un totem da abbattere per poter cambiare strategia, profilo e identita' del partito. Tutto qui.