Gli anni Ottanta sono il decennio in cui si manifesta in modo inequivocabile la crisi del nostro sistema politico, di quella Prima Repubblica che di lì a poco andrà ad infrangersi sugli scogli di Tangentopoli, dopo che la caduta del muro di Berlino aveva mandato in soffitta le storiche contrapposizioni ideologiche su cui si erano retti sino ad allora certi equilibri.
Di quel periodo, caratterizzato da una mediocrità senza uguali e superato solo dalla pochezza della cosiddetta Seconda Repubblica, può essere utile riportare alla nostra attenzione alcuni esponenti politici finiti nel dimenticatoio ma che invece, a ben vedere, giocarono un ruolo importante, ponendosi in rottura con il quadro politico circostante. Tra questi è certamente da annoverare Giovanni Goria che in quegli anni fu più volte ministro e divenne, sebbene per pochi mesi, presidente del Consiglio, breve parentesi tra i governi Craxi e De Mita. A farlo uscire dall’oblio, in cui ingiustamente era stato cacciato, ci hanno pensato, nel ventennale della morte, Paolo Giaccone e Francesco Marchianò, con un libro Giovanni Goria: il rigore e lo slancio di un politico innovatore (edizioni Marsilio) che racconta la parabola politica ed umana dell’esponente democristiano.
Nato ad Asti nel 1943, ragioniere ed esperto contabile, Goria mosse i suoi primi passi nella DC locale collocandosi nella sinistra del partito, sotto l’ala protettrice di Giovanni Marcora, l’indimenticato partigiano Albertino. Dopo un’esperienza alla guida del movimento giovanile dello scudo crociato, nel 1976 fu eletto alla Camera. A Montecitorio si fece subito notare per una non comune capacità di analisi dei conti pubblici che sapeva sviscerare nelle loro pieghe più riposte, tentando di scoprirvi tutto ciò che contribuiva a gonfiare la spesa pubblica. Fu così che da giovane parlamentare della commissione Finanze scoprì che le relazioni al bilancio venivano in pratica fotocopiate ad anni alternati. Nel 1976 si ricopiava quella del ’74 e nel 1975 quella del ’73: piccoli espedienti di un’indolente burocrazia.
Ma in Goria non vi era solo una pur meritoria pignoleria contabile quanto un’idea di politica rigorosa nella quale la spesa pubblica diveniva strumento di sviluppo e opportunità per accrescere l’equità sociale. In questa prospettiva, lo spreco era dunque quanto di più colpevole potesse esserci, distogliendo risorse laddove ve ne era più bisogno. Discorsi, va subito detto, poco ascoltati anche nel suo stesso partito. Del resto erano gli anni della contrapposizione tra DC e PSI, in una lotta senza esclusione di colpi per il potere, ove troppo spesso la spesa pubblica diveniva veicolo di consenso clientelare.
Nel 1987, dopo le elezioni che rendevano ancora indispensabile una collaborazione tra DC e PSI toccò a Goria salire a palazzo Chigi alla guida di un pentapartito che servisse a far decantare le polemiche che serpeggiavano nella maggioranza. Furono mesi di navigazione a vista, tra l’ostilità craxiana e l’indifferenza demitiana, con una DC poco impegnata a sostenere il premier di un esecutivo definito, come quello di Pella del 1953, semplicemente “governo amico”.
Chiusa la breve parentesi da premier, in cui non era riuscito ad incidere nella misura voluta, Goria si sentì per molti versi come liberato da un peso e iniziò quella che può definirsi la sua stagione migliore, dello studioso che cerca di analizzare i nodi che strozzano lo sviluppo economico e sociale del Paese. In Italia, evidenziava in uno scritto del 1990, ci sono tre grandi asimmetrie. Una è rappresentata da una crescita egoista e privata più che solidale e collettiva. “Abbiamo, ad esempio, singole abitazioni di qualità e quartieri scadenti e privi di servizi”. La seconda, uno Stato incapace di tutelare l’interesse generale e di farlo prevalere sui mille rivoli corporativi. La terza, un sistema di partiti pressoché sganciato dal suo naturale compito di incanalare i bisogni dei cittadini e la partecipazione democratica (chissà cosa direbbe oggi di fronte al Porcellum e al Parlamento dei nominati). Tre condizioni anomale su cui Goria riflette avanzando un ampio ventaglio di proposte, in un orizzonte di modernizzazione del Paese, di miglior funzionamento delle istituzioni e di integrazione europea.
Nella DC è però una voce accolta con sufficienza. D’altronde è tutto una classe politica che si sta dissolvendo, con Mani Pulite a dare il colpo di grazia. Anche Goria viene toccato dalle inchieste. Nel 1993 si dimette da ministro prima di venir raggiunto da un avviso di garanzia. Sarà poi assolto con formula piena ma nel frattempo si trova a combattere contro la malattia che lo ha colpito. L’uomo che, forse più di ogni altro nella DC, per lucidità, lungimiranza e dato anagrafico poteva dare il segno di una classe politica rinnovata, scompare nella primavera del 1994, proprio quando nasce la Seconda Repubblica con l’antipolitica, il crollo dei partiti e la rivincita dei potentati economici. Fenomeni e situazioni che mettono a soqquadro la nostra democrazia e sui quali il leader astigiano aveva più volte riflettuto senza trovare ascolto. |