Stampa questo articolo
 
Il lavoro che manca: articolo 18 e TFR
 
di Franco Maletti
 

Il lavoro che manca è il problema dei problemi. Su come creare lavoro, nel piccolo della nostra Associazione, vogliamo focalizzare le riflessioni e il dibattito. Per questo, prima di organizzare una iniziativa pubblica, cerchiamo di individuare alcune proposte concrete su cui incentrare una proposta politica di governo dell’emergenza-lavoro. Base di partenza sarà la pubblicazione di interventi significativi, nostri e di vari studiosi ed esperti, che possano fornire chiavi di lettura sulla crisi che stiamo vivendo per individuare delle concrete vie d’uscita. Dovrebbe essere chiaro a tutti che la disfida sul famigerato articolo 18 non è altro che uno specchietto per le allodole, che avrà anche risvolti ideologici e politici (specie all’interno del PD), ma certamente non porterà un solo posto di lavoro in più.
Pubblichiamo a partire da oggi le riflessioni del nostro amico Franco Maletti, ex sindacalista e “libero pensatore” spesso controcorrente, a cominciare proprio dallo sfatare il mito dell’articolo 18 e dalla proposta sul TFR in busta paga. (Alessandro Risso)


Premessa per questo e i successivi articoli: se il lavoro ha cambiato verso non si può cambiare verso al lavoro, ma regolamentarlo diversamente tenendo conto dei mutamenti intervenuti.

Il mito dell’articolo 18
Oggi, invece di discutere sull’articolo 18, sarebbe molto più opportuno discutere sul reale livello di rappresentatività del sindacato nel mondo del lavoro.
Se il sindacato è proprietà di chi paga la tessera la risposta è facile: rappresenta una minoranza. Se il sindacato pretende per tutti gli stessi privilegi di chi paga la tessera la risposta è altrettanto facile: è fuori dalla realtà. E meraviglia il fatto che il sindacato, dopo avere dormito per anni, oggi su una questione come quella dell’art. 18 si svegli di colpo e decida di mobilitare le masse (a proposito: “quali” masse?).
Probabilmente il sogno del sindacato è quello che tutto ritorni ad un “passato” che non tornerà mai più.
Prima si esce da questo inganno nei confronti dei lavoratori meglio sarà per tutti. Ma, per farlo, occorre che il sindacato faccia la scelta dell’essere invece di quella del sembrare. E questo significa, innanzitutto, rivedere radicalmente le proprie posizioni: partendo da quella di non considerare più il datore di lavoro il “bieco padrone”, ma qualcuno col quale allearsi per rigenerare lavoro in Italia. È almeno dalla metà degli anni Novanta che le Aziende, attraverso la “esternalizzazione” (cessione di rami di attività aziendale) applicano veri e propri articoli 18 collettivi senza che il sindacato muova un dito (salvo sottoscrivere accordi per il passaggio dei lavoratori da un datore di lavoro all’altro: assicurandosi soltanto che, nel momento del passaggio, le retribuzioni individuali vengano armonizzate tramite superminimi assorbibili). È infatti pacifico che un ramo di attività esternalizzato ha un tipologia di contratto dai costi nettamente inferiori (altrimenti che vantaggio ci sarebbe?). Come è altrettanto pacifico che le nuove retribuzioni, maggiorate di superminimo per mantenere al momento del passaggio lo stesso livello precedente, vedano questo superminimo eroso dagli aumenti derivanti dai contratti futuri di rinnovo: di fatto congelando la retribuzione del lavoratore per diversi anni (a volte decenni).
Per quanto riguarda l’art. 18 “vero” (quello oggetto di tante discussioni da tifo calcistico), prima di esprimere dei giudizi sarebbe utile conoscere innanzitutto quello che accade nella realtà: un lavoratore licenziato ingiustamente (ma con una lettera ben fatta, magari dall’avvocato dell’azienda), quando si reca al sindacato per essere tutelato si trova di fronte alla scelta di fare la causa (con probabilità di perderla) oppure di monetizzare il più possibile la sua fuoriuscita. A meno che si tratti di un sindacalista rappresentante sindacale, il lavoratore viene convinto alla monetizzazione per tutta una serie di motivi: nessuno può garantire la certezza della vincita della causa, i tempi per la conclusione della causa sono molto lunghi (e nel frattempo il lavoratore di cosa vive?), i soldi rendono facile la soluzione della questione e accontentano tutti e subito (il sindacato che prende la percentuale, l’avvocato che si fa pagare la parcella faticando molto meno, il lavoratore che può sopravvivere mentre si cerca un altro lavoro). D’altronde: quale lavoratore è così ingenuo da pensare che, dopo che il suo rientro in azienda è stato imposto dal giudice, l’azienda prima o poi non gliela faccia pagare? Questa è la situazione nel concreto: piaccia o no ai vari “grandi esperti” che discettano in TV senza conoscere la realtà.

TFR in busta paga?
Del TFR in busta paga si parla molto in questi giorni.
Quello che desta maggiore perplessità sta nella motivazione: se si tratta di retribuzione differita che viene anticipata al lavoratore in busta paga, perché allora non anticipare le voci retributive, altrettanto differite, che si chiamano tredicesima, quattordicesima, e premio annuale di produzione?
Tornando al TFR: anche se le modalità di corresponsione non sono ancora definite, anche se ci sarà un forte ridimensionamento rispetto a una decisione iniziale che riguarderebbe tutti i lavoratori, forse sarebbe meglio un “ripasso” sulle sue origini. Il TFR non è altro che la vecchia “indennità di anzianità”, che veniva corrisposta al lavoratore al termine della sua prestazione lavorativa, L’indennità di anzianità veniva calcolata prendendo come riferimento l’ultima retribuzione percepita, (maggiorata delle quote di tredicesima e quattordicesima, premi, media straordinari e qualunque altra voce retributiva corrisposta in modo continuativo), moltiplicato gli anni di anzianità. Il TFR è stato istituito in un periodo in cui in Italia viaggiava una inflazione annua a due cifre: che rendeva onerosissima per il datore di lavoro l’indennità di anzianità. Si è deciso quindi, d’accordo con i sindacati, di accantonare ogni anno la retribuzione percepita diviso 13,5: rivalutando l’ammontare in ogni anno successivo dello 1,5 % più il 75% del tasso di inflazione. “In questo modo” spiegavano i tecnici del sindacato “se l’inflazione annua è superiore del 6 per cento, chi ci guadagna è il datore di lavoro; se l’inflazione è invece inferiore chi ci guadagna è il lavoratore”. Oggi, grazie l’euro, in Italia l’inflazione supera raramente il 2%. Questo in soldoni significa che: 75% del due per cento uguale 1,50. Più 1,50 fisso, totale TRE. Quale somma, oggi investita, dà una rendita annua del TRE per cento? Difficilissimo trovarla.
Tuttavia, un piccolo datore di lavoro che chiede un finanziamento paga di interessi molto di più. E questo spiega perché, fino ad oggi, nelle aziende al di sotto dei quindici dipendenti nessuno ha mai avuto da obiettare. Conveniva ad entrambi: datore di lavoro e lavoratore. Ma conveniva ancor più nelle grandi aziende: fino a quando ci si sono messi di mezzo il sindacato e alcune leggi di supporto per favorire i Fondi Pensione integrativi “spolpando” il TFR. Non mi dilungo sui Fondi Pensione: mi limito ad osservare che, se l’esigenza del lavoratore è quella di integrare la sua contribuzione ai fini pensionistici, perché non consentire di farlo direttamente tramite l’INPS, evitando la costituzione di costosi carrozzoni dove, peraltro, non è escluso che il lavoratore vada a perderci?
(1. Continua)


franco maletti - 2014-11-01
Caro Cicoria, in tema di art. 18 ricordo che, negli ultimi 44 anni nelle aziende con meno di sedici dipendenti i lavoratori "messi sul lastrico" dal licenziamento si sono sempre rimboccati le maniche e, chiedendo nulla a nessuno e senza i privilegi di cassa integrazione e di indennità, hanno cercato e trovato un altro lavoro. Ma veniamo alla questione che più ti preoccupa (le molestie sessuali): ma in che mondo vivi? Te la vedi una lavoratrice licenziata per non avere "ceduto" preferire a un congruo risarcimento la reintegrazione sul luogo del delitto? Nelle piccole aziende può succedere che il datore di lavoro molesti la giovane lavoratrice (e la molestia è difficile da dimostrare vuoi anche per omertà dei colleghi di lavoro), ma cosa c'entra l'art 18? Io conosco invece casi al contrario: lavoratori denunciati per molestie dalla lavoratrice. In questi casi il datore di lavoro, per cautelarsi, licenzia il lavoratore in attesa che venga fatta chiarezza. Spesso capita che la molestia non sia provata e che scatti la denuncia per diffamazione. Quindi, per favore, non terrorizziamo chi legge la nostra rubrica su questioni particolari per le quali esistono già leggi apposite a prescindere dall'art 18!
giuseppe cicoria - 2014-10-28
Caro Maletti, non concordo per niente su quello che dici sull'art. 18. Il fatto che i datori di lavoro con i loro bravi avvocati e con gli interessi "non dissimulati" addirittura dei sindacati, "inducono" un lavoratore (licenziato senza palese e giusto motivo) a rinunciare al SUO lavoro non può giustificare l'eliminazione di questo sacrosanto e civile articolo! Senza questa legge tante brave persone capi famiglia, possono essere mandate sul lastrico ingiustamente. Di questi tempi trovare un nuovo lavoro non è solo difficile, è un vero dramma! Lo Stato dovrebbe sopperire trovando altra alternativa. Ma Lei è così ingenuo da credere a questa ridicola norma? Ma dove lo trova lo Stato questo nuovo lavoro? Rimette forse in piedi un altro carrozzone di Ufficio di collocamento di lontana memoria? Non si può e non si deve filosofeggiare su questo angosciante argomento. Quante donne potrebbero essere licenziate perchè non acquescienti a molestie di padroni o capi ufficio? Pensa un po' se dovesse capitare ad una delle nostre figlie....! Non possiamo degradare l'uomo ad un semplice fattore della produzione di cui si può fare a meno anche senza motivo e per capriccio di un altro uomo! Ma che razza di mondo vogliamo sottoscrivere noi che abbiamo già una certa età? Il provvedimento sul TFR fortunatamente danneggia parecchie aziende che, tra l'altro, sono già di loro abbastanza inguaiate dalla recessione, dal sistema dei ritardi dei pagamenti e dagli esosi oneri bancari. Ciò ritarda l'iter emanato da ministri che, alla canna del gas, hanno disperato bisogno di raschiare il barile e fare cassa. Contrariamente a quanto auspica la nostra Carta Costituzionale si inducono i lavoratori a dare fondo ai risparmi per sopravvivere. Anzichè creare lavoro e, quindi, ricchezza, si invitano i cittadini a distruggerla per alimentare consumi di prodotti che, forse, in buona parte saranno di provenienza estera. Alcuni altri politici nostrani invitano i vecchi con bassi redditi a "vendersi" la nuda proprietà delle proprie abitazioni per poter sopravvivere. Questo è il nuovo corso politico....!
Domenico Piacenza - 2014-10-27
Condivido l'intervento anche come persona che a suo tempo ha contribuito attivamente al dibattito sullo statuto dei lavoratori e alla stesura di alcuni articoli dello stesso in stretta collaborazione con gli avvocati della FIOM e della CGIL. In punto al TFR vorrei ricordare che è ancora in vigore la disposizione normativa che consente al lavoratore di chiedere un anticipo sullo stesso. Molti interventi appaiono chiaramente inutili.
Andrea Griseri - 2014-10-27
Due terreni su cui il sindacato farebbe bene a impegnarsi: il livello delle retribuzioni in primo luogo. Un sistema economico funziona se i consumatori dispongono della materia prima per fare i ocnsumatori e cioé del denaro; ridurre i diritti, rendere i lavoratori ricattabili, indurli ad accettare retribuzioni basse non premia gli imprenditori migliori ma quelli che investono poco , quelli meno innovativi e più beceri; rischia di provocare un decadimento generalizzato. Se nessuno più si compra l'i-phone sarà giocoforza tornare al gettone, caro premier. Fondi pensione: monitorarne il funzionamento e creazione di un meccanismo perequativo che riduca il rischio per i lavoratori che hanno lì dirottato il TFR. Sono suggerimenti per il sindacato ma anche per il premier.