Il Direttivo della nostra Associazione ha ritenuto di assoluta priorità due temi: come creare il lavoro che manca sempre più e la perdita progressiva di democrazia. Su questi incentriamo le nostre prossime attività e focalizziamo il dibattito su “Rinascita popolare”.
In merito a quella che potremmo definire “deriva antidemocratica” – già denunciata da Guido Bodrato e ripresa da altri interventi – pubblichiamo un significativo articolo del professor Ladetto che affronta il tema con un respiro europeo. (a.r.)
Da mesi si confrontano i sostenitori delle riforme renziane all’insegna dell’efficienza con quanti privilegiano la tutela degli equilibri fra i poteri che stanno alla base della democrazia rappresentativa. Nello scontro polemico, ricorrono le accuse di “svolta autoritaria”, di “gufi” o di “frenatori preoccupati solo dei propri interessi”. Troppo spesso, si dimentica che l’Italia non è un mondo a sé stante, un’isola lontana dagli altri Paesi occidentali. Per comprendere ciò che sta accadendo in Italia, occorre allargare l’orizzonte visuale nello spazio e nel tempo. Anche le iniziative del governo Renzi interpretano linee di tendenza che, con gradazione diversa, si manifestano un po’ ovunque, e che evidenziano una progressiva riduzione degli spazi democratici. Il fenomeno si è andato accentuando negli ultimi anni, in particolare con l’affermarsi della globalizzazione.
Sempre meno gente si reca alle urne. In libere elezioni, l’astensionismo è, in ogni tempo e luogo, segno di crisi profonda della democrazia. Non ha senso minimizzare la portata di un tale fenomeno perché l’essenza della democrazia non è riconducibile alle sole procedure: una società è democratica quando i Parlamenti rappresentano la società in tutte le sue articolazioni sociali e culturali; quando i cittadini hanno voce preminente nell’indirizzarne le scelte e quando le decisioni assunte nelle Assemblee legislative incidono sulle loro condizioni di vita.
Vari fattori hanno congiurato, e congiurano, a rendere fragile la democrazia. In primo luogo, la globalizzazione ha indebolito i poteri degli Stati, perché nulla possono verso ciò che, come il capitale finanziario, li può attraversare sottraendosi a controlli e regole. Decisioni che coinvolgono la vita presente e futura di milioni di esseri umani sono prese da organismi (Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, grandi multinazionali, ecc.) estranei allo Stato nazionale in cui si svolge l’attività politica. Gli Stati, e in particolare quelli europei, hanno ceduto sovranità nei confronti di istituzioni sovrannazionali, quali la Commissione Europea, che non hanno natura rappresentativa (“ademocratica” ha scritto Luciano Gallino). C’è poi il frequente ricorso allo stato di necessità che sospende il corretto funzionamento delle istituzioni parlamentari. Si aggiunga la tendenza a delegare ruoli a istituzioni parademocratiche o tecnocratiche che esaltano ulteriormente il primato dell’economia, concepita sempre secondo logiche neoliberiste.
L’affermarsi delle concezioni neoliberiste ha assegnato al mercato crescenti funzioni di regolazione non solo relativamente ai fatti economici ma anche in ambiti di vita che fino a ieri erano stati tenuti insieme normativamente dalla politica o dalle tradizioni. Alla base del mercato, ci sono gli scambi con i connessi automatismi, mentre la politica è fondata sulle decisioni e, in democrazia, sulla volontà dei cittadini. Se si allarga sempre più lo spazio del mercato, si restringe quello della politica che finisce per essere messa ai margini e risultare esautorata. Anche da ciò deriva il decadimento della politica, ridotta sovente a semplice marketing elettorale. Ma di ciò, molti non sembrano preoccuparsi. La dimensione planetaria in cui si svolgono oggi le vicende economiche e sociali ha reso difficile alla gran massa della gente decifrare e comprendere le questioni oggetto di dibattito politico e le connesse scelte. Così si diffonde l’idea pericolosa, sostenuta da molti opinionisti, che, essendo la politica cosa complessa e difficile, occorre impedire al popolo, incolto e impreparato, di interferire nei processi decisionali e nelle attività di governo, da lasciare ai professionisti e agli addetti ai lavori. Per quanto riguarda poi le scelte economiche, tale compito spetta ai soli tecnici qualificati, riconosciuti tali dal milieu finanziario internazionale. La politica viene quindi ulteriormente espropriata di una significativa parte delle sue funzioni dal prevalere di altri ambiti: economico, burocratico, giudiziario.
Come si è giunti alla situazione attuale?
Dopo il dissolversi della esperienza rovinosa del socialismo reale, sembrava che il modello liberaldemocratico non avesse più alternative. Fu quando Francis Fukuyama scrisse di “fine della storia”. Si trattava solo di una questione di tempo, ma tutti i Paesi avrebbero adottato tale modello istituzionale ed economico sociale. La politica dei Paesi occidentali (e presto di ogni altro Paese) sarebbe consistita nell’alternanza fra due varianti all’interno di una stessa visione del mondo. In tal modo, sarebbe stata assicurata la pace universale, tra gli Stati e al loro interno.
Ma le cose sono andate diversamente.
Proprio da allora, sono esplosi conflitti in varie parti del pianeta. Si è parlato di guerre per “esportare la democrazia”, ma in realtà ha continuato a essere la pura logica di potenza a determinare gli atti della politica internazionale. Il mondo islamico ha risposto con la violenza delle sue componenti estreme alla penetrazione, e sovente all’imposizione, dei “valori occidentali”, ritenuti estranei, tanto da indurre Samuel Huntington ad annunciare l’imminenza di uno scontro di civiltà poiché le identità culturali e religiose sarebbero diventate la fonte primaria di conflitto nel mondo post-Guerra Fredda. E oggi la guerra è giunta alle porte di casa nostra.
Anche all’interno dei Paesi dell’Occidente, le cose non sono andate tranquillamente nella direzione prevista. Il nuovo equilibrio sociale e politico verso cui si era avviata buona parte dell’Europa occidentale aveva già lasciato sussistere ampie sacche di popolazione ai margini del conquistato benessere. Con la crisi in atto, il quadro si è ulteriormente deteriorato perché è grandemente aumentata la fascia dei disoccupati, dei lavoratori precari e di quanti sono privi di ogni tutela, mentre la classe media si va assottigliando e indebolendo. Pertanto, il ceto dirigente – ben determinato a restare tale, per garantirsi contro ogni evenienza – ha ritenuto necessario accelerare forzosamente il cammino verso l’auspicato bipolarismo, mettendo sotto controllo il meccanismo elettorale per finalizzarlo alla creazione automatica di maggioranze moderate nei due soli schieramenti ammessi al gioco. In nome della governabilità, si mira a estromettere dalle assemblee rappresentative le voci delle componenti sociali marginali, di quelle più irrequiete o indocili, e di quanti non si riconoscono nel pensiero e negli idoli dominanti. Anche di qui, viene il crollo della partecipazione al voto.
La forzatura maggioritaria imposta con il bipolarismo porta necessariamente a governi sostenuti, nel paese reale, da minoranze, talvolta esigue. Nei Paesi con sistemi elettorali maggioritari (come Francia, Regno Unito e USA), le maggioranze governative hanno ottenuto il consenso di non più del 20-25%, e talora meno, degli aventi diritto al voto. Poi ci sono i media, in larga misura resi complici di questo disegno, ai quali è dato incarico di emarginare dai circuiti informativi i potenziali dissidenti e di convincere la gente che i due poli (liberalconservatore e liberalprogressista) sono in grado di riempire tutto il campo della politica legittima. Tutte le alternative a questo assetto bipolare sono definite pericolose o comunque negative, e, pertanto, vanno soffocate. Viene detto che il bipolarismo, o meglio ancora il bipartitismo, caratterizza le istituzioni dei Paesi più “moderni” essendo connaturato al modello economico, politico e istituzionale dominante.
Ma se la crisi in cui viviamo non fosse una semplice crisi ciclica, ma (come credo) una profonda crisi di sistema, allora il bipolarismo diventerebbe, sul terreno parlamentare, un ostacolo a ogni iniziativa politica volta al superamento dell’assetto attuale. In materia, si dovrebbe tenere presente (in particolare da quanti si definiscono di “sinistra”) che, nel XX secolo, il movimento operaio con le sue espressioni politiche e i partiti di natura popolare (come quello cattolico), per potersi pienamente affermare, hanno dovuto attendere il cambiamento dei sistemi elettorali con il passaggio dalla formula maggioritaria a quella proporzionale. Invece oggi, si fanno sentire in giro umori autoritari: esaltazione del leader decisionista, dell’uomo del fare che deve essere lasciato libero di lavorare senza le fastidiose opposizioni, e senza la presenza di partiti espressione di voci minoritarie, ritenuti inutili accessori o peggio portatori di poteri di ricatto.
La storia raramente si ripete con le stesse modalità. Difficilmente vedremo riproporsi i totalitarismi del “secolo breve”. Tuttavia bisogna mettere in conto che, se i problemi della disoccupazione e dell’esclusione sociale diventeranno cronici, se i fenomeni migratori non saranno riportati sotto controllo e se la situazione ambientale continuerà a deteriorarsi, si faranno più marcate le tentazioni autoritarie, sia pure diverse dal passato, in quanto inizialmente orientate verso la formazione di “governi tecnici” con il compito di controllare con maggiore fermezza una società più complessa e instabile. Già oggi, viene sempre più diffusa l’idea che, nel mondo attuale, le soluzioni dei problemi siano di esclusivo ordine tecnico. La ragione tecnologica implica che per ogni problema ci sia una sola soluzione ottimale, da affidare, a livello istituzionale, a un esperto comunicatore portavoce dell’oligarchia tecnocratica. Pertanto, non c’è più bisogno di mettere a confronto percorsi rispondenti a differenti esigenze sociali o di valutare scelte sorrette da diversificate visioni del mondo. Non c’è allora più bisogno della vera politica, e quindi della democrazia o quanto meno di una democrazia fondata sul dibattito e sulla partecipazione.
La democrazia è un traguardo ideale, mai compiutamente raggiunto, e forse mai raggiungibile. I cammini percorsi per approssimarsi alla meta, con esiti diversi e non sempre positivi, sono stati e sono molteplici. Per definirli, la democrazia è stata variamente aggettivata: diretta, rappresentativa, liberale, autoritaria, popolare, ecc. Oggi è il momento della “democrazia matura” o “democrazia avanzata”, termini con cui si designa una democrazia maggioritaria costruita intorno a un leader che concentra in sé ampi poteri, una democrazia senza corpi intermedi e senza partiti essendo questi ridotti a semplici comitati elettorali. C’è chi parla di populismo o di cesarismo, ma, a differenza di quanto avviene in dette esperienze, questa pretesa moderna democrazia non è tesa a mobilitare le masse, ma ad addormentarle, allontanandole dalla militanza politica e dalle urne.
In ogni caso, è evidente la crescente distanza rispetto a quell’ideale per cui, nel corso della storia, si sono battuti e talora sacrificati tanti sinceri democratici. |