Negli anni del dopoguerra, la prospettiva dell’unità europea ha suscitato grandi speranze. In primo luogo, ha mandato nel dimenticatoio le guerre intereuropee che nei secoli avevano insanguinato il continente e che, con i due conflitti del secolo breve, l’avevano distrutto. Con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), sono state messe in comune quelle risorse che in passato avevano costituito l’indispensabile base materiale per gli armamenti e per condurre le guerre fra Paesi europei, e fra Francia e Germania in particolare. Poi sono stati fatti ulteriori passi avanti sul cammino unitario con la creazione, nel 1957, della Comunità economica europea, diventata nel 1992 Unione europea. Ne è scaturito un parlamento europeo che ha prodotto normative, regolamenti e progetti comuni riguardanti agricoltura, economia, libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, ecc. L’Europa sembrava la soluzione di tutti i nostri problemi.
Oggi, invece, la Commissione europea è ritenuta la causa di tutti i mali: appare sempre più lontana dai problemi della gente, in mano a una burocrazia ottusa che detta regole assurde e si perde dietro le inezie; una Commissione che, mentre riduce ai minimi termini la sovranità di popoli e nazioni, difetta di legittimità democratica e impone politiche di austerità ritenute immotivate o peggio dettate dagli interessi di taluni Paesi. Così invece di procedere nel cammino unitario, l’Europa appare spaccata, a seconda delle interpretazioni, tra Nord e Sud, tra Paesi virtuosi e Paesi spendaccioni, o tra Paesi egoisti e Paesi schiacciati da una recessione imposta da una politica miope e gretta. I giudizi negativi sono espressi non solo dai cosiddetti euroscettici, perché molti critici si trovano anche tra coloro che ancora ripongono fiducia in una prospettiva unitaria. Pertanto, dobbiamo chiederci perché sia intervenuto questo capovolgimento di opinione; e perché a un certo punto, alle attese positive, è subentrata la delusione per il percorso fatto. Le spiegazioni sono molteplici. C’è chi ne individua la causa nell’impreparazione con cui il vertice comunitario ha affrontato la crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2007. C’è chi incolpa gli egoismi nazionali, in specie degli Stati più forti, o il risorgere di un nazionalismo di ritorno alimentato dai populisti e dagli euroscettici. Ma sono diagnosi che mi pare scambino i sintomi della malattia con gli agenti causali.
A ben vedere, la crisi del progetto unitario europeo comincia a fine anni Novanta quando iniziano a farsi sentire gli effetti della globalizzazione. Grazie ad essa, un capitalismo finanziario dagli istinti predatori si è messo in condizione di aggirare le regole e i vincoli degli Stati nazionali, sempre meno armati di strumenti per fronteggiarlo; nel contempo, si sono fatti avanti sulla scena mondiale nuovi attori, costituiti da Paesi emergenti, popolosi, dinamici, abitati da giovani, ben decisi a far valere il loro peso nella competizione per le risorse e per gli sbocchi commerciali. Di fronte a questi fenomeni epocali, si è resa subito evidente la debolezza dei singoli Stati europei.
Una federazione europea sarebbe stata la strada più valida per competere nella società globale. Ebbene proprio qui la UE è venuta meno. Non solo non ha fatto e non fa passi avanti perché la prospettiva unitaria appare sempre più problematica, ma si è dimostrata incapace di dare risposte ai problemi dei suoi cittadini. Non regola in modo equo gli scambi commerciali con i Paesi extraeuropei (Cina in primis) avendo abbassato per prima e unilateralmente le barriere; non impedisce le sempre più frequenti delocalizzazioni delle imprese; non riesce a stabilizzare il mercato del lavoro e a far fronte alla crescente disoccupazione; non garantisce un migliore potere d’acquisto ai suoi cittadini; non esercita un efficace controllo dell’immigrazione, i cui flussi in crescita non riesce a gestire, e, pertanto, non è in grado di integrare i nuovi arrivati; resta inerte di fronte a un vistoso aumento della criminalità. Molti europei così hanno perso fiducia in una costruzione europea che, invece di farsi strumento per affrontare la globalizzazione, appare come una semplice tappa sul cammino della mondializzazione. Quando una società diventa sempre più vasta e tende a identificarsi col mondo intero, essa (ci ha detto più volte Zygmunt Bauman) appare incontrollabile e sconosciuta, lontana da noi, e così ci rende spaesati e incerti, causando insicurezza. Di qui viene quel desiderio di tornare indietro a quegli Stati nazionali in cui era possibile riconoscere una propria casa, dove c’erano ancora legami e una cultura condivisa. È un’aspirazione comprensibile anche se non ha possibilità di realizzazione. Bisognerebbe invece costruire una casa europea dal profilo riconoscibile e pertanto sentita come nostra. Ma non basta auspicarla perché, per costruirla, bisogna prima comprendere le cause per le quali si è giunti allo stallo attuale.
Certamente indicazioni utili non ci vengono dal dibattito in corso, concentrato sulle dispute fra fautori del rigore e sostenitori della flessibilità, fra difensori dell’austerità e quanti sono propensi a consumi realizzati indebitandosi ulteriormente. Già perché il primo errore fatto nella costruzione europea è stato quello di privilegiare l’economia rispetto al progetto politico e alla valorizzazione del comune patrimonio culturale. A motivare questa scelta, c’era l’idea espressa sinteticamente da Jean Monnet con l’esortazione: “Federate i portafogli, federerete i cuori”. Ma è difficile che i matrimoni fatti per interesse si traducano in convivenze sostenute, se non da amore, almeno da affetto fra le parti. Così gli Stati europei non hanno fatto passi in avanti verso una effettiva “federazione dei cuori”, cioè verso l’unione politica del continente. È stata invece l’economia a piegare a sua immagine la UE.
E l’esclusiva ottica economica adottata ha portato con sé conseguenze pesantemente negative. Ha favorito la deriva neoliberale delle istituzioni che ha messo al centro di tutto il mercato e la concorrenza. Ha condotto all’esaltazione del ruolo degli esperti e dei tecnocrati. Ha finito per trasformare il progetto politico dell’Europa dei sei in una semplice area di libero scambio, di cui sono entrati a far parte anche Paesi, come il Regno Unito, che non hanno alcuna intenzione di dare vita ad un progetto federale. Ne è conferma la Costituzione a suo tempo proposta per l’Europa, e bocciata dai referendum francese e olandese che, invece di porre al centro norme e valori fondativi della casa comune, dava rilevanza preminente e vincolante al neoliberismo. Un ulteriore passo negativo è stato il frettoloso allargamento dell’Unione ai Paesi dell’est, senza aver prima consolidato le strutture politiche esistenti e senza aver posto a tali Paesi condizioni vincolati sul cammino unitario e conseguenti impegni da rispettare. Questi Paesi, usciti da un cinquantennio di soffocante comunismo, erano e sono rimasti legati a un gretto e pericoloso nazionalismo da primo Novecento. Sono pertanto poco preparati e direi poco interessati a una reale costruzione europea. Hanno scelto l’Occidente e la NATO. Costituiscono quella che George Bush ha definito “la nuova Europa” per contrapporla a una “vecchia Europa” (Francia e Germania in particolare) che non lo seguiva nelle sconsiderate avventure mediorientali.
Oggi, c’è chi vuole far entrare nella comunità europea la Turchia o la Georgia. C’è chi parla di includere Israele. Tutto ciò accade perché quest’Europa comunitaria non sa definire se stessa e quindi non sa darsi dei confini (ogni definizione si colloca necessariamente all’interno di un perimetro). Così, a tale fine, si prende in considerazione la candidatura di nuovi ingressi di Paesi, ora per opportunità di natura politico-economica (come nel caso della Turchia), ora per semplici motivazioni strumentali (come nel caso della Georgia da utilizzare in chiave antirussa). Poi non si comprende perché la Russia, che è Europa non solo geograficamente, dovrebbe star fuori dal progetto quando si aprono le braccia all’Ucraina che per storia, lingua e cultura è ad essa strettamente legata. Enzo Bettiza, un esperto conoscitore del mondo slavo, la ha definita “la madre della grande Russia”. A complicare il tutto, c’è poi la tendenza a sovrapporre al concetto di Europa quello di Occidente, un riferimento di ordine ideologico corrispondente alla liberaldemocrazia.
L’Europa è un’altra cosa rispetto all’Occidente. Va oltre gli avvenimenti politici contingenti; va oltre gli eventi contemporanei. È una civiltà che, come ogni civiltà, lega il presente al proprio passato; ha identità, cultura, specificità sue proprie e peculiari. È il prodotto di quell’onda lunga della storia (di cui scriveva il grande storico Fernand Braudel) capace di resistere nel tempo alle sollecitazioni esterne. Così è per ogni vera società che, come ci dice il Nuovo Catechismo, “dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire”.
In tema di Europa, su Avvenire del 17 giugno scorso, Gianfranco Marcelli richiamava l’accorato appello fatto 32 anni fa da Giovanni Paolo II, al termine del suo primo viaggio apostolico in Spagna, ai popoli del Vecchio Continente. Diceva quell’invocazione, destinata a risuonare dall’Atlantico agli Urali: “Ritrova te stessa, sii te stessa. Riscopri le tue origini. Ritrova le tue radici”. Oggi – scrive ancora Marcelli – papa Bergoglio ha invitato, con parole che riecheggiano l’appello wojtyliano, i cristiani ad impegnarsi per l’Europa perché tocca anche a loro aiutare l’Europa “a ringiovanire, a ritrovare le sue radici”; perché, ha spiegato, “questa nostra casa comune non è tanto o soltanto invecchiata, è soprattutto “stanca”. È un appello che può essere sottoscritto non solo dai credenti ma da tutti quanti hanno a cuore il futuro di questa nostra civiltà millenaria.
Ma oggi la stanca élite espressa dai Paesi comunitari si occupa e preoccupa esclusivamente di economia; ha messo da parte ogni riferimento a quei fondamenti culturali e a quelle realtà storico-valoriali che costituiscono il patrimonio comune europeo e l’essenza stessa dell’idea di Europa. Si fa portatrice di un malinteso universalismo per il quale l’apertura agli altri imporrebbe di cancellare la propria identità; una identità che inoltre sarebbe contrassegnata da troppi eventi tragici (come se le pagine nere non fossero presenti nelle vicende storiche di ogni Paese e civiltà, ma fossero una peculiarità europea).
Così nasce la negazione di sé.
Ne deriva una specie di senso di colpa che induce a rifiutare ogni memoria di ciò che la civiltà europea è stata nel corso dei secoli. In tal modo, inevitabilmente entra in crisi l’idea di Europa perché la costruzione del progetto europeo deve essere in grado di suscitare un orgoglio di appartenenza al soggetto politico che si intende creare e che deve essere all’altezza della sua storia, cultura e civiltà. A supplire a tale mancanza, non basta certo il richiamo a un patriottismo costituzionale fondato su una carta dei diritti. Inoltre, anche per far fronte agli aspetti materiali dell’odierna crisi, non sono sufficienti semplici misure di ordine economico. Si pensi alla denatalità che affligge il continente e che scaturisce, assai più che dalle ristrettezze economiche, o dalle carenze del welfare, dalla mancanza di visione del futuro. |