Renzi ha avuto gioco facile, nella recente assemblea Pd di sabato scorso.
Arrivato all’Ergife col vento in poppa del 40.8%, il segretario-presidente si è trovato di fronte una serie di assist che naturalmente ha sfruttato al volo, con il risultato di trasformare l’assemblea in una sorta di “one man show” che ha realizzato gol a ripetizione.
Il primo assist gli è stato fornito da Mineo e compagnia. Al netto del (clamoroso) infortunio verbale – che tradisce una superiorità saccente di una certa sinistra che è tra le cause prime del fenomeno Berlusconi –, Mineo ha compiuto un doppio, clamoroso autogol.
Nel merito, attestandosi su una posizione ormai largamente minoritaria nel partito e nei gruppi per una soluzione di elezione diretta del Senato, che contrasta contro l’esigenza di attribuire alla Camera alta una funzione diversa e non bloccante del sistema istituzionale, con l’esplicito intento (vedi l’intervento “del caffè” di Tocci in assemblea) di portare Renzi sul piano del negoziato. Un’ipotesi di pura illusione, di chi non ha capito che il Pd maggioritario e decisionista di Renzi non è quello di Bersani, proporzionalista e mediatore.
Nel metodo, sostenendo la liceità per un parlamentare di procedere incurante delle determinazioni del proprio partito e del proprio gruppo di appartenenza, a maggior ragione se determinante sul piano numerico. Una sorta di mastellismo gauchista, insomma.
Il tutto condito con appelli alla libertà del singolo parlamentare e all’assenza del vincolo di mandato decisamente fuor d’opera e stucchevoli, perché – com’è evidente – la sostituzione di un parlamentare in sede di commissione è espressamente prevista dai regolamenti parlamentari.
Col risultato politico di essere riusciti – per classica eterogenesi dei fini – a trarre Berlusconi dall’angolo nel quale il voto del 25 maggio lo aveva confinato, e a fargli sperare di riacquisire una centralità confidando sul fatto di essere ritornato determinante sul piano dei numeri al Senato per l’approvazione di una qualsivoglia riforma, in assenza di una compattezza del gruppo democratico.
Renzi non poteva non fare – e dire – ciò che ha detto e fatto, e derubricare questa sortita nel file “sinistra vecchia che non vuole cambiare”. Un cliché che gli ha decisamente portato fortuna, avendolo messo in sintonia con lo stato d’animo del Paese, e sorprende il fatto che chi avversa il segretario non lo abbia ancora compreso.
Il secondo assist gli è arrivato dalle minoranze interne. Le quali, chiamate a dover esprimere un nominativo sulla figura del presidente dell’assemblea nazionale del partito (immediatamente riciclato dalla comunicazione come il “presidente del PD”, come se non fossimo già un partito presidenziale in cui è il segretario a essere – per Statuto – il leader indiscusso e non più un primus inter pares come nei partiti del passato) si sono presentate sfrangiate e disossate.
Risultato scontato: una parte della minoranza – i “giovani turchi” – ufficializza il suo nuovo status di maggioranza, e fa fare la fine degli Armeni di inizio Novecento ad “Area Riformista”, ovvero a ciò che resta dei bersaniani. Da qui la presidenza Orfini.
Ora al segretario resta la composizione della segreteria. Un passaggio non banale, che sarebbe improprio e ingiusto liquidare come questione burocratica, da ceto politico interessato solo al proprio ombelico. Renzi all’Ergife ha buttato sul tavolo tutto il peso del 40,8%, con l’obiettivo esplicito, dichiarato e anche sfacciatamente esibito di voler cambiare l’Italia.
Ai più è forse sfuggito, ma il passaggio politicamente più impegnativo del segretario-presidente (oltre a quello sulla profonda riforma della RAI) è stato sulla giustizia, e sulla sua esigenza di riformarsi.
Dietro al suo invito a far pulizia all’interno del PD, non vi è solo un comprensibile desiderio di trasparenza e di ricambio della classe dirigente. Si scorge anche un segnale lanciato alle toghe. E cioè che la politica sta facendo la propria parte per cambiarsi, al fine di poter cambiare. E che questo cambiamento deve valere per tutti. Anche per la magistratura. Un terreno delicato, ma inevitabile. Su questo versante negli ultimi tre decenni in Italia si sono realizzati i più grandi sfridi istituzionali. Ma ormai il dado è tratto. Renzi fa capire alla magistratura che la guerra dei 30 anni è finita. Vedremo cosa ci riserveranno le prossime puntate in proposito.
Per non parlare delle altre rilevanti questioni lanciate dal governo: dalla riforma della pubblica amministrazione a quella della RAI, dal ruolo dell’Italia in Europa fino alla ripresa economica, da stimolare con nuove politiche industriali e la riforma del mercato del lavoro.
Fino a giungere alla sfida politica europea che il voto attribuisce al Pd, ovvero il compito storico di modificare l’identità del PSE all’indomani del voto del 25 maggio che ha visto sconfitti i partiti socialisti ortodossi e premiata l’innovazione renziana, e di declinare il nuovo riformismo sociale continentale come alternativa alle nuove componenti nazionalistiche o alle vecchie politiche neoliberiste.
Per fare tutto questo, il PD che funzione avrà? Dovrà essere ancillare alla funzione di governo, e limitarsi a “spondare” Palazzo Chigi nella sua azione riformatrice, oppure dovrà ritagliarsi un proprio specifico ruolo? Il PD “di Renzi” ha preso il 40.8% per cambiare l’Italia. E quindi PD e Renzi oggi sono endiadi, una “cosa comune” che richiede la capacità politica e organizzativa per mettere a terra tutto il potenziale oggi presente nell’atmosfera democratica. Come farlo?
Molti esponenti della “minoranza che si è fatta maggioranza” non nascondono che dietro alla presidenza di Orfini vi sia un tentativo di ritorno al partito organizzazione, alla struttura, al radicamento. Insomma, alla “ditta”. Pensiamo che Renzi non asseconderà mai questo desiderio revanchista di una notte di prima estate.
Ma al segretario spetta ora il compito di disegnare il nuovo identikit e la moderna struttura di un partito che riscrive la modalità della democrazia rappresentativa, in chiave innovativa e dentro un quadro di coniugazione tra capacità di azione e garanzia plurale di rappresentanza.
Renzi ha giustamente sottolineato come debba essere considerato al capolinea il tratto della recente storia del PD che ha visto i democratici definirsi, confrontarsi e dividersi sui cognomi dei leader. Ora occorre aprire un fase nuova, in cui rimettere al centro i contenuti, le idee e la voglia di lavorare per cambiare l’Italia, e corrispondere in questo modo alla nuova natura di “country party” che gli elettori italiani hanno voluto attribuire al Partito Democratico. |