Il dibattito sulla democrazia interna ai partiti è antico ma continua a essere sempre attuale. Soprattutto dopo la fine della Prima Repubblica e la stagione dei partiti che poggiavano la propria organizzazione interna prevalentemente sulle correnti organizzate. Con l’eccezione del PCI che aveva nel “centralismo democratico” il proprio fulcro politico e organizzativo.
Ma con la fine della Prima Repubblica e la sostanziale archiviazione dei partiti che la sostenevano, siamo passati alla stagione dei “partiti personali” e dei partiti “carismatici”. Sia chiaro, gli statisti esistevano già nella Prima Repubblica. O meglio, gli statisti esistevano quasi solo nella Prima Repubblica, ed erano anche personalità dotate di grande carisma politico e popolare. Con il mutare dei tempi è però cambiata in profondità la società e, con essa, la modalità concreta del fare politica. La personalizzazione da un lato e la spettacolarizzazione dall’altro hanno soppiantato i moduli tradizionali e cambiato il modo d’essere dei partiti. A cominciare proprio dalla loro organizzazione interna. Le correnti, quando esistono, si sono oggi trasformate in centri di mero potere o pacchi di tessere sostanzialmente slegate da qualsiasi valenza politica e di rappresentanza culturale e sociale. I centri di elaborazione culturale e ideale sono stati smantellati e il tutto regge prevalentemente sull’appeal del leader. La proposta e il progetto del partito sono stati appaltati quasi integralmente alle capacità e al carisma del “capo”.
È ovvio dedurre che in un quadro del genere l’articolazione correntizia, il confronto interno e lo stesso dibattito sono letti e interpretati come una sorta di perdita di tempo, di chiacchiera sterile e improduttiva, di rallentamento della “decisione” politica dell’intero partito.
Francamente non saprei dare una risposta netta e inequivocabile alla domanda sulla scarsa democrazia interna ai partiti contemporanei. Certo, ogni partito mantiene una sua specificità rispetto alla cosiddetta pratica democratica. C’è chi pratica le primarie, chi la rete, chi l’antica prassi le tessere. C’è la designazione centralistica, ci sono le tesi congressuali ecc. Ma, al di là delle varie modalità organizzative, c’è un filo rosso che lega questa variegata articolazione organizzativa: e cioè, nei partiti contemporanei – almeno quelli più consistenti – è il “leader” che decide, che promuove la classe dirigente e che detta la linea politica. A prescindere dagli statuti, dai regolamenti e dalla stessa volontà dei dirigenti, o degli aderenti o degli stessi elettori. E questo è un elemento che deve far riflettere.
Perché dietro a questa impostazione non c’è soltanto la volontà del “capo” di turno di dettare la linea o di comprimere la dialettica interna. Dietro a questa prassi concreta – non a caso benedetta dagli stessi elettori di riferimento – c’è, forse, la volontà politica di semplificare o di cancellare tutto ciò che ha caratterizzato le precedenti stagioni politiche. E quindi anche le precedenti organizzazioni di partito. Che, è sempre bene ricordarlo, non erano affatto congregazioni di santi o associazioni benemerite. C’erano, come è emerso platealmente negli anni Ottanta, elementi profondamente degenerativi e di vera e propria corruzione accompagnati da uno squallido malcostume, legato prevalentemente alla disonestà dei singoli ma anche alle storture del sistema.
Ecco perché, allora, la riflessione sulla democrazia interna ai partiti e sul ruolo degli stessi partiti non può e non deve essere archiviata frettolosamente. Come non può essere bollata aprioristicamente la nuova modalità organizzativa che sta contagiando un po’ tutti i partiti. Semplicemente, si tratta di proseguire e di approfondire una riflessione che attiene direttamente al profilo e alla “qualità” della nostra democrazia. Perché, come diceva agli inizi del ‘900 don Luigi Sturzo, “per capire cosa pensa un partito delle istituzioni, è sufficiente verificare come pratica la democrazia al suo interno”.
Mai riflessione fu più esatta e pertinente. |