Per oltre cinquant’anni l’europeismo è stata la principale garanzia “della pace nella sicurezza” per i Paesi del continente, nel tempo della “guerra fredda”.
La drammatica vicenda dell’Ucraina che, dopo l'adesione all’Unione europea di quasi tutti i Paesi aderenti al patto di Varsavia, è diventata la “frontiera” con la Russia, dovrebbe ricordarci che fino alla caduta del Muro di Berlino era l’Italia il Paese di frontiera verso l’URSS: cosa hanno significato in quegli anni la NATO e la Comunità europea? E le pagine che i quotidiani stanno dedicando al centenario della Grande Guerra (1914/2014) dovrebbero farci ricordare cosa ha significato all'inizio del '900 il nazionalismo cui vorrebbero riportarci oggi i nemici dell'Europa. Quasi tutte le famiglie italiane hanno pianto un “caduto per la patria” in quel terribile conflitto. Dalle rovine di quella “inutile strage” hanno preso forza il fascismo e il nazismo, ed anche il conflitto mondiale del '39, che si è concluso nel '45 con la Resistenza europea, con il cammino verso la Comunità e infine con l'allargamento ai Paesi dell'Est; per i quali l'Unione è soprattutto “la garanzia delle frontiere nazionali”.
Per i populisti la pace e la sicurezza sembrano aver perso ogni importanza, così come sembra aver perso importanza la democrazia; con il sogno europeo rischia di tramontare anche la passione democratica e potrebbe riemergere dalle nebbie della storia la tentazione autoritaria.
Un ciclo della storia si è concluso, ora l’Europa deve vincere la sfida della globalizzazione, che alimenta nelle viscere del vecchio continente vecchie e nuove contraddizioni. Dobbiamo tornare indietro? Per vincere la sfida che la storia impone, debbano restare in piedi i valori umani e cristiani cui si è ispirato il federalismo sognato da Altiero Spinelli nel confino di Ventotene, calato nella realtà da Adenauer, Schumann e De Gasperi, tre personaggi “nati in regioni di frontiera, ispirati alla stessa visione della vita, che parlavano il tedesco”.
In realtà stiamo vivendo una crisi epocale, e le difficoltà che caratterizzano questi anni stanno alimentando in molti Paesi movimenti antieuropei che scaricano tutte le colpe della crisi sull'UE e sulla moneta unica. I nemici dell’euro propongono di tornare alla moneta nazionale, convinti che tutto si risolverebbe con la restaurazione della sovranità nazionale. Chi propone di uscire dall’euro per riconquistare, con la sovranità nazionale, anche un benessere che si reggerebbe sulla “svalutazione competitiva” della lira, non può ignorare che il ritorno alla lira produrrebbe il dilagare dell'inflazione, un forte aumento del costo delle materie prime (compresa l'energia), una esplosione del debito pubblico, la demolizione dei risparmi delle famiglie e delle pensioni... Chi ci guadagnerebbe? Eppure anche in Italia i sondaggi prevedono il dilagare dell'euroscetticismo, sino a toccare il 30 per cento dei voti, e delle astensioni...
Davvero vogliamo il naufragio dell’Europa ed il ritorno alle divisioni del passato?
La strada da imboccare, per superare il modello liberista è un’altra. È necessario camminare con più decisione verso l’Europa “politica”, verso una maggiore integrazione delle politiche fiscali, sociali ed economiche, verso istituzioni europee che si dimostrino capaci di “governare” l’euro in funzione della crescita economica e della solidarietà. Il problema che si deve risolvere non riguarda la polemica sull’Europa delle banche; riguarda piuttosto il fatto che nella concreta vita dell’Unione conta più il Consiglio, cioè il vertice dei governi nazionali, di quanto contino la Commissione e il Parlamento. Conta più una istituzione “sovranista”, inevitabilmente paralizzata dal conflitto tra gli interessi nazionali, e quindi condizionata dall’interesse più forte, delle istituzioni “comunitarie” (Commissione e Parlamento) che rappresentano gli interessi di tutta l’Unione e operano nella logica dell’integrazione e della solidarietà tra i popoli europei.
Il dibattito, sempre aperto, sui Trattati che regolano la vita dell’UE, va ripreso su questo punto, e su queste questioni bisogna vincere le resistenze dei nemici dell’Europa che si annidano a destra, tra i conservatori, nel segno del nazionalismo, ma anche a sinistra. Non dobbiamo dimenticare che in occasione del referendum francese, alcune correnti di sinistra hanno respinto la proposta di costituzione già approvata dal Parlamento europeo, poiché volevano una Carta più avanzata sul terreno sociale, senza rendersi conto che con quel voto facevano il gioco del “re di Prussia”.
D’altra parte non si deve sottovalutare il rischio che l’onda nera del populismo renda più profondo il solco che separa l'opinione pubblica dalle istituzioni europee. In realtà si può prevedere che questa crisi, questo rischio, convinca le diverse famiglie europeiste (popolari, socialisti, liberali) a rinnovare il “compromesso” su cui si regge la politica europea, imponendo al Parlamento di Strasburgo una riapertura del confronto sul modello di società e sui limiti di trattati che hanno indebolito il processo di integrazione economica e sociale, invece di rafforzarlo. Il Parlamento deve avere più forza, deve poter imporre al consiglio e alla Commissione scelte di governo che convincano la Germania, punto di forza dell’UE, che non c’è stabilità finanziaria senza un progetto di crescita economica che riguardi anche l’Europa mediterranea. A questa necessaria ripresa della cultura comunitaria dovrebbe concorrere il fatto che questa volta sono gli elettori a scegliere, con il Parlamento, anche il Presidente della Commissione europea. E non possiamo ignorare che, subito dopo il voto del 25 maggio, toccherà all’Italia scrivere l’agenda di questa nuova fase della vicenda europea in occasione dell’ormai prossimo “semestre” affidato alla presidenza italiana. |