È tutto sommato una piccola Europa quella che si avvia al voto del 25 maggio. Piccola non soltanto per le riduzioni populistiche che in tutti i Paesi si ripromettono cavalcate elettorali vincenti, ma anche per l’abbassamento dei toni – non nella misurazione dei decibel ma per la passione – di quanti nell’Europa continuano a credere.
Non ci si può allontanare troppo dai padri fondatori, dal loro pensare in grande e parlare di conseguenza, e accedere alle liturgie vincenti di un populismo dilagato in tutti gli schieramenti che privilegia il vincere rispetto alla coltivazione degli ideali e del sogno, e quindi all’affermazione di una democrazia che non è mai un guadagno fatto una volta per tutte.
La riduzione populistica del dibattito alla quale assistiamo finisce per perdere profondità e prospettiva, accettando che il campo di confronto sia essenzialmente quello intorno all’euro. Dimenticandone i convulsi retroscena politici, le preoccupate telefonate tra Parigi e Londra nel momento in cui Helmut Kohl decise la riunificazione delle due Germanie, mentre da Roma Giulio Andreotti commentava con il proverbiale disincanto: “Amo tanto i tedeschi da preferire che di Germanie ne restino due”. L’euro infatti risultò allora la mediazione ottenuta come contropartita rispetto ai timori di un’egemonia del marco.
Dunque fin dall’inizio la moneta comune europea non è affare di banchieri, ma problema tutto interno al destino del Vecchio Continente e di sovranità tra gli Stati contraenti. Se si prescinde dalla durezza di questa memoria si diventa corrivi a quel dilagare dei poteri finanziari rispetto a quelli politici che ha trasformato progressivamente – complice non soltanto il fiscal compact – gli gnomi di un tempo nei signori della moneta e della BCE. La traduzione europea cioè, dopo la crisi iniziata nel 2007, di quella che Obama nel primo discorso di insediamento alla Casa Bianca definiva “l’avidità” dei mercati.
Da non demonizzare (i mercati, non l’avidità) dal momento che in essi agiscono i grandi fondi di pensione mondiale e senza i loro acquisti dei nostri titoli di Stato non riusciremmo a pagare gli stipendi degli insegnanti e dei medici.
Ma altro è fare i conti con la durezza dei mercati ed altro consegnare ad essi lo scettro di comando. Prospettiva che ci rimanda insieme al sogno europeo e al realismo delle sue tappe istituzionali. Non è un caso che Alcide De Gasperi ripeta nei suoi discorsi che l’Europa deve essere considerata una tappa verso un governo mondiale e insieme a Jean Monnet sia uno dei più convinti sostenitori negli anni cinquanta della Ceca: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
Quel che lo scetticismo delle diverse famiglie di europopulisti dimenticano è che soltanto il consolidarsi di una dimensione adeguata insieme economica e politica è in grado di reggere alla globalizzazione del turbocapitalismo. Di conseguenza accettare il terreno degli avversari riduzionisti è il modo di compromettere non soltanto una tornata elettorale, ma lo stesso significato della costruzione europea.
Gli eventi degli ultimi, difficilissimi mesi ci dicono che siamo arrivati al termine di un modo di intendere lo Stato e il rapporto tra cittadini e istituzioni. Non solo per quel che riguarda il nostro Paese, ma anche per la comune patria Europa. Casa comune fin nel pensiero dei nostri padri fondatori.
Pochi ricordano infatti che Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli – pur partendo da visioni differenti e addirittura diametralmente opposte circa lo Stato e la sovranità – ripetono all’unisono nei loro interventi che l’Europa deve considerarsi una tappa verso un governo mondiale. Non solo Stati Uniti d’Europa, ma una forma democratica capace di includere e insieme di governare. Non un problema di moneta, ma un banco di prova della democrazia, non soltanto per il Vecchio Continente. Con garanzie reali per il rispetto della cittadinanza di tutti.
Per questo ha visto bene Romano Prodi quando ha affermato che il welfare, lo Stato Sociale, da aggiornare e riformare, è “la più grande invenzione politica” di questa nostra Europa. E pazienza se qualcuno meno di un decennio fa ha pensato di dileggiarci – proprio per questo – definendoci figli di Venere e pigmei militari nei confronti dei figli di Marte. Noi siamo contenti di restare dalla parte di Venere.
Veniamo dalle celebrazioni sentite e riuscite di un 25 Aprile che ha visto la presenza nelle piazze di larghe masse (il termine non è letterario ma statistico) giovanili. Perché anche sulla Resistenza europea sembravano essere calati l’oblio e la dimenticanza.
E invece prima dei padri fondatori ci sono quelli che quest’Europa l’hanno testimoniata nel sangue. Abbiamo fatto l’Europa perché c’è stata una Resistenza europea attraversata da due grandi presenze e da due temi che sono tuttora di bruciante attualità.
Furono i giovani a salire montagna e a non militare per la Repubblica Sociale di Salò e per i suoi analoghi nelle altre nazioni. I giovani sono il nerbo naturale della Resistenza: quelli che l’hanno pagata di più anticipando drammaticamente quella partecipazione dei loro coetanei che settant’anni dopo saranno i protagonisti dell’Erasmus.
La ritroviamo anche in Germania. Il gruppo della “Rosa Bianca” non è soltanto una piccola testimonianza. Quei giovani studenti tedeschi che lasciavano i volantini nelle guide telefoniche dei telefoni pubblici e che invitavano i tedeschi a riappropriarsi della loro dignità di popolo ritornando alle pagine dei grandi pensatori tedeschi: da Heine a Goethe. E la circostanza che il tribunale nazista li volle giustiziati nell’immediato pomeriggio susseguente alla condanna testimonia della preoccupazione e del timore che quelle posizioni, pur disarmate, rappresentavano per il regime hitleriano.
Quel medesimo regime reso orrendamente famoso dai campi di sterminio – da Auschwitz a Mauthausen – e che mi lascia soprattutto inorridito di fronte alla testimonianza del castello di Artheim, dove gli scienziati del regime operarono i più orrendi esperimenti su uomini considerati meno che cavie. Non più cioè la grigia amministrazione dei seguaci di Himmler in nome della banalità del male denunciata da Hannah Arendt, ma una scienza pervertita nei panni dell’aguzzino.
E, quasi a riproporre un dilemma e un legame attualissimi legati alla presenza dei giovani, l’assenza di lavoro. Perché è sempre vero che il lavoro che manca stanca di più del lavoro che si fa.
E se tutti ripetiamo che Hitler andò al potere conquistando il Reichstag con un voto democratico, quel che omettiamo di ricordare è che Hitler andò al potere promettendo e realizzando la piena occupazione. Con venti milioni di morti e sei milioni di ebrei fatti passare per il camino.
Sono tutte buone ragioni per non ridurre l’Europa odierna all’Europa dei banchieri. L’Europa infatti è fin dalle sue radici un luogo di accoglienza del diverso. Proprio la presenza storica delle radici cristiane – insieme a quelle ebraiche ed islamiche, omesse nel trattato che doveva preludere alla Costituzione europea – sono lì a testimoniare che il diverso non è altra cosa e sconosciuta da parte del cittadino europeo. La diversità cioè ci appartiene come patrimonio costitutivo da molti secoli.
Una cittadinanza cioè dell’accoglienza che riguarda i diritti e le regole della democrazia così come le garanzie che ai diritti e alle regole conferisce concretamente lo Stato Sociale. Gli Stati Uniti d’Europa cioè non sono la bella copia aggiornata degli Stati Uniti d’America: essi devono andare oltre se stessi per alludere a una nuova forma di democrazia capace di includere e di dare speranza.
Fuori da questo orizzonte ogni discussione sull’Europa non solo risulta inadeguata e parla d’altro, ma è pure destinata all’impotenza.
Sono i grandi storici, soprattutto quelli di lingua francese, a ricordarci l’importanza delle radici. E così come Braudel suggerisce che non ci può essere Europa a prescindere dalla sua vocazione mediterranea, Jacques Le Goff, recentemente scomparso, per il libro dedicato a evidenziare le radici medievali dell’Europa, non trova di meglio che il titolo: Il cielo sceso in terra…
Non hanno cioè cittadinanza europea i senza-storia, la nuova barbarie televisiva che ha sostituito alla politica non la propaganda, ma la pubblicità capace di generare la domanda attraverso le sue offerte ossessive. Non ha cittadinanza europea la “tirchieria mentale” (Nino Andreatta) di quanti fanno discendere dalla ragioneria e dalle sue polemiche ed opposizioni interne il destino delle forme politiche. Oltretutto soltanto la grande politica è capace di andare anche contro la storia, perché si è presa il disturbo di conoscerla.
In effetti il prossimo 25 maggio non ci giochiamo soltanto il percorso che ha le sue pietre miliari nei trattati di Maastricht, Nizza e Lisbona. Neppure siamo soltanto richiamati a rifare i conti con il libro bianco di Delors dedicato a Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Testo al quale diede un contributo tutt’altro che marginale il nostro Padoa-Schioppa.
I trattati infatti si affidano alla gestione delle potenti burocrazie di Bruxelles, segnate oltre che dalla competenza da pervicaci tradizioni nazionali. Per questo l’ultima osservazione non può non riguardare il personale politico chiamato a custodire e sviluppare l’idea fondativa d’Europa. Un personale politico strattonato finalmente e a forza dalle circostanze lontano dai filtri gerontocratici che ne facevano nel nostro Paese una sorta di cimitero degli elefanti.
Devo dire con altrettanta franchezza che la semplice logica, non poco pubblicitaria, del giovane e donna non mi convince, come non mi convincono tutte le retoriche politiche alla moda. Le competenze derivano infatti da una preparazione e da un training per il quale mancano da vent’anni in Italia, dopo lo smantellamento di tutto l’apparato dei partiti di massa, i luoghi e i maestri.
Anche alla politica come professione, sia pure pro tempore, non si nasce “imparati”. E devo anche aggiungere impietosamente che neppure la competenza è sufficiente, perché non era solo uno sfizio di Max Weber pensare che la politica dovesse essere insieme professione e vocazione. E quanto alla vocazione il senso della storia vale più delle tecniche moderne più raffinate.
(tratto da www.circolidossetti.it) |