Capita frequentemente di venire a conoscenza di episodi di nepotismo o di clientelismo, di assunzioni o promozioni di persone di scarso merito, favorite per legami parentali o politici con chi ricopre posizioni di potere. Assistere a questi fatti ci indigna facendoci perdere fiducia nelle pubbliche istituzioni. Altrettanto negativo è vedere trattare allo stesso modo, sul piano retributivo e di avanzamento nella carriera, chi fa e chi non fa, chi lavora bene e chi manifesta disaffezione per il lavoro, ciò che accade particolarmente nel settore pubblico ed è uno dei motivi della sua inefficienza. Così, come rimedio a questi fenomeni negativi, viene invocata da più parti la meritocrazia.
È certamente auspicabile che ad occupare posti di responsabilità e ruoli tecnici e professionali siano coloro che in materia si rivelano più competenti; e altrettanto è giusto riconoscere sul piano retributivo la capacità e l’impegno lavorativo delle persone. Ma la meritocrazia è altra cosa rispetto a ciò.
Il termine “crazia” significa potere, e meritocrazia indica una forma di aristocrazia in cui il potere (comprensivo dell’aspetto politico) è assegnato a coloro che hanno avuto successo in particolari ambiti professionali e in particolare nel mondo produttivo. La meritocrazia contrassegna un sistema di stratificazione sociale in cui potere, privilegi e ricchezza sono concentrati in una élite che legittima il proprio ruolo con un presunto merito. Dico presunto perché nel nostro Paese (e non solo) non mancano esempi di manager di imprese pubbliche e private, lautamente retribuiti secondo supposti criteri di merito, che sono stati dimissionati (con rilevanti liquidazioni) per la pessima conduzione delle imprese loro affidate. Nei molti casi in cui il merito è effettivo, tuttavia non è mai tale da giustificare le attuali enormi differenze di reddito fra chi ricopre posizioni di vertice e quanti occupano i piani bassi della scala sociale.
Ricordo che Adriano Olivetti aveva disposto che, nelle sue aziende, nessun dirigente, neanche il più alto in grado, dovesse guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo. Oggi, ci troviamo di fronte a differenze di molte decine di volte o addirittura di centinaia di volte quando si tratta di amministratori delegati e manager di banche o di grandi imprese. In tempi difficili quali quelli odierni, risultano inaccettabili tali divari di ricchezza. Pertanto bene fa l’attuale governo a porre dei tetti alle retribuzioni di manager pubblici, alti burocrati e magistrati. Ma occorre andare oltre. E ciò non riguarda solo gli esponenti delle banche e della finanza, i manager delle imprese private e grandi professionisti, ma anche i personaggi del mondo sportivo, dello spettacolo e dei media perché a costoro, per la loro popolarità, è affidato il compito di rendere accettabili, alla vasta massa delle persone, le grandi differenze di reddito. Tuttavia, c’è chi dice che non si possono mettere tetti retributivi al di fuori dell’area pubblica, perché nel privato deve esserci piena libertà. Ogni tetto retributivo sarebbe arbitrario: è compito del mercato misurare la qualità delle prestazioni, assegnando ad esse il giusto riconoscimento monetario.
In materia, ricordo che la Costituzione (art. 53) prevede la progressività dell’imposizione fiscale. È quanto meno strano che tale progressività resti tutta confinata entro la fascia dei primi 75.000 euro di reddito annuo. Al di sopra di questa cifra, l’aliquota marginale resta sempre la stessa (cioè cessa la progressività) sia per chi guadagna annualmente centomila euro, sia per chi guadagna un milione o dieci milioni di euro. Ridisegnare l’andamento della progressività fiscale sarebbe molto opportuno non solo per far sì che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, ma anche per scoraggiare retribuzioni fuori di ogni logica, tali da distorcere una corretta scala di valori. Bisogna capire che nella società non può svilupparsi e mantenersi un sentimento di appartenenza, improntato alla cooperazione, alla solidarietà e alla ricerca del bene comune, quando i modi di vita delle persone diventano abissalmente lontani per mezzi disponibili e opportunità loro concesse. Inoltre, se non si riconducono le disuguaglianze entro limiti ragionevoli, è inutile parlare di democrazia e di partecipazione perché il peso politico dei cittadini e la loro capacità di incidere sulle scelte di chi governa sono sempre più correlati alle disponibilità economiche e ai connessi ruoli sociali.
Allora, tuteliamo le capacità, le competenze e l’impegno delle persone, ma facciamo attenzione a dove conduce una ideologia che esalta in tutti gli ambiti la meritocrazia e la competizione, giustificando in base ad esse le grandi differenze di reddito. In tema di competizione, ricordiamoci che, al termine delle gare sportive, soltanto tre atleti salgono sul podio; agli altri resta la soddisfazione di aver partecipato. Tuttavia dubito che nelle competizioni della vita reale, ai moltissimi perdenti (individui, imprese, Paesi) sia di soddisfazione il solo avervi preso parte.
Affine alla meritocrazia è la tecnocrazia. Con tale termine si intende un sistema in cui viene assegnato agli esperti (uomini di scienza, tecnici, economisti, imprenditori ecc.) il compito di guidare il Paese o comunque di indirizzarne le scelte fondamentali in quanto si tratta di persone competenti e quindi capaci di fare meglio dei politici designati dagli elettori. È un ragionamento che seduce molte persone, e che, di tanto in tanto, si fa strada anche a livello istituzionale (vedi il Senato degli “esperti” o degli “specialisti”, auspicato dalla senatrice a vita Elena Cattaneo). È un’idea che viene da lontano. Infatti, nel mondo antico, Platone e la più parte dei filosofi erano critici nei confronti della democrazia perché ritenevano che assegnasse responsabilità di governo a chi non sa di scienza e di tecnica, e che quindi non può bene operare. Ora è auspicabile che gli eletti dai cittadini abbiano delle competenze o che si impegnino a dotarsene. Tuttavia ciò è assai diverso dal voler sostituire i rappresentanti del popolo con figure eminentemente tecniche. Teniamo presente che, di massima, gli appartenenti a qualsivoglia categoria di esperti (tecnologi, scienziati, docenti, magistrati e altri), quando si trovano ad operare in ambito politico tendono a privilegiare soluzioni che in primo luogo accrescano il loro ruolo professionale e il loro potere nella società, soluzioni che non sempre coincidono con l’interesse dei cittadini.
Sicuramente qualcuno dirà che esprimere una critica demolitrice nei confronti delle élites (meritocratiche e tecnocratiche.) è un connotato caratteristico del populismo. Ma non si tratta di negare in astratto il ruolo delle élites, che certamente può essere positivo e per certi versi indispensabile. Non dimentichiamo che il populismo si afferma (come ci ha detto Yves Mény, un esperto in materia) quando nella società si è verificato il fallimento delle élites. Ed oggi in tutto l’Occidente, si sta diffondendo la convinzione che le élites (non solo politiche, ma anche tecnocratiche, imprenditoriali, mediatiche e culturali, sempre più intrecciate o interconnesse) si siano separate dalla gente comune e in generale dalla società, di cui non si sentono parte e che non comprendono più.
Le cose stanno veramente così? Sembra di sì, secondo due importanti sociologi.
Christopher Lasch, storico e sociologo statunitense, (in La ribellione delle élites: il tradimento della democrazia) ci offre una feroce rappresentazione di quella che definisce la “nuova classe”, ovvero l’élite meritocratica affermatasi con la globalizzazione. Popolata da nomadi, la nuova classe manca della continuità che deriva dal senso di appartenenza a un luogo e da standard di condotta coscientemente coltivati e trasmessi da una generazione all’altra. La nuova classe esercita il potere irresponsabilmente, proprio perché riconosce così pochi obblighi verso i suoi predecessori e verso le comunità che sostiene di guidare. La mancanza di gratitudine dequalifica le élite meritocratiche rispetto all’esercizio di una leadership. Le persone di talento hanno la maggior parte dei vizi dell’aristocrazia senza possederne le virtù. Il loro snobismo non riconosce in alcun modo l’esistenza di obblighi reciproci tra i privilegiati e le masse. Gli obblighi sono stati spersonalizzati: si adempie ad essi attraverso le organizzazioni pubbliche, il cui peso non ricade sulla classe manageriale e professionale, ma, in misura sproporzionata, sulle classi medio-basse e su quelle lavoratrici. In effetti, i membri della nuova classe si sono estraniati dalla vita comune e dalla società.
Zygmunt Bauman (in Voglia di comunità) scrive che nella società odierna, plasmata dalla mondializzazione e dal mercato globale, sono in particolare le persone affermate della cosiddetta élite meritocratica a non manifestare più alcun sentimento di appartenenza alla società in cui momentaneamente si trovano a vivere, perché questa non offre loro nulla che già non abbiano o che non possano ottenere autonomamente. I membri dell’élite meritocratica vanno dove le opportunità sono maggiori; si sentono cittadini del mondo, senza doveri verso alcuna comunità territoriale. (Ce ne danno il peggiore esempio, aggiungo io, quei personaggi del mondo finanziario, dello sport e dello spettacolo che, per sfuggire al fisco o non pagare imposte adeguate ai loro guadagni, assumono nazionalità di convenienza o residenza in paradisi fiscali). L’ideologia meritocratica, secondo il celebre sociologo polacco, ha come conclusione logica lo smantellamento dello Stato sociale comprensivo di norme previdenziali, assicurazioni collettive, indennità di disoccupazione, sanità e istruzione pubblica.
Una società democratica non ha come principale compito quello di selezionare i migliori per rinnovare o allargare il reclutamento dell’élite. Essa, pur riconoscendo i meriti dei singoli, deve prima di tutto innalzare il livello generale di istruzione, di competenza e di impegno di tutti i cittadini, cercando di non lasciare nessuno indietro. |