L’avvenuta approvazione da parte dell’aula di Montecitorio della riforma elettorale, sia pure in prima lettura, consente di provare a fare qualche riflessione di carattere politico, che tenti di staccarsi sia dalle letture degli ultras che la presentano come la nuova Terra Promessa che dalla bulimia di tanti colleghi che ad ogni emendamento sentono il bisogno di confessare ai social network la loro inclinazione.
Sul piano politico, è indubbio che si tratti di un risultato che conferma la tenuta dell’asse tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, suggellato nel famoso sabato pomeriggio del Nazzareno. Ma nemmeno la cosiddetta “minoranza democratica” (singolare questa autodefinizione per una serie di componenti che amano sia autodefinirsi minoranza sia mantenersi nelle posizioni di potere del partito e del governo, in una sorta di ossimoro lessicale e politico) ne esce ammaccata: l’approvazione dell’emendamento D’Attorre (che ricalca la filosofia dell’emendamento Lauricella) di fatto depotenzia la portata tattica della riforma, impedendo a Renzi di disporre immediatamente di una legge con la quale attivare l’effetto “pistola fumante”.
Risultato: il “treno delle riforme” (abusata definizione di questi giorni) parte, con una singolare modalità che stabilisce una sorta di effetto a catena tra riforma elettorale e riforma istituzionale che si legano reciprocamente a vicenda, in un avvitamento che può essere decisivo o letale a seconda di come si imposterà la vicenda.
Sul piano politico, Renzi ottiene il primo risultato. Può dimostrare che l’accordo da lui sancito con Berlusconi regge, a dispetto delle letture che volevano il gruppo parlamentare del PD pronto a far franare tutto. Può intestarsi il merito di aver sbloccato la situazione, e aver portato il Parlamento –con modalità oggettivamente inusuali – a dare finalmente una risposta sul terreno delle riforme dopo anni di acqua pestata nel mortaio. E può affrontare la fase della riforma costituzionale con l’abbrivio di chi ha portato a casa un risultato forse insperato in tempi e modalità, vista la gragnuola di voti segreti scampati.
Con una serie di conseguenze non da poco, per la stessa identità democratica. Il prezzo pagato a questo primo successo è pesante, in casa PD: su preferenze, soglie di accesso e parità di genere si sono toccate questioni molto delicate, e per le quali la sensibilità in casa democratica è altissima. Solo la responsabilità di non far crollare tutto, esponendosi all’inevitabile e a quel punto esiziale autogol, ha impedito al gruppo PD della Camera di bloccare su questi punti la stretta intesa con Forza Italia, nettamente contraria su questi temi. Ma – lo si è visto – in casa democratica non solo si è masticato amaro, ma sull’altare della partenza del “treno delle riforme” si sono bruciati dei sacrifici significativi, che imporranno al Senato una oggettiva rivisitazione dei contenuti.
Certo, sarà il tempo a dire se Parigi ha valso una messa, e cioè che davvero l’accordo con Silvio Berlusconi ha retto fino in fondo consentendo al “treno delle riforme” di arrivare davvero alla stazione finale e di non trasformarsi nell’ultimo treno per Yuma.
Ora l’onore della prova gira nelle mani di Berlusconi. Renzi ha fatto il suo, vedremo se lo farà Berlusconi, dando per la prima volta prova nella sua esperienza politica di sapere tenere fede alle promesse e agli impegni.
Finalino: alcuni colleghi, in dissenso dal gruppo, hanno ritenuto di non votare la legge elettorale. Ne rispetto, ovviamente, la decisione, ma con franchezza voglio dire che non la condivido. Non solo perché l’Italicum era già stato oggetto di una votazione della direzione del PD (e non ho notizie in quella circostanza di voti contrari, dissensi o marcate differenziazioni), e non solo perché ritengo
che dovremmo finirla con il mal vezzo di trasportare dentro le aule istituzionali i frutti di un dibattito interno mai sufficientemente elaborato (anche a causa di una vocazione maggioritaria che ha trasformato gli organi dell’elaborazione politica del partito in un’assemblea dove dissenso e consenso si misurano con l’applausometro e gli hastag di twitter). Non la condivido perché un partito – lo ripeto – non lo si prende “à la carte”, solo per ciò che piace. Lo si prende tutto. Altrimenti ha ragione Civati, a disimpegnarsi sempre su tutto e per tutto pur di distinguersi e di fare il controcanto che è tanto fruttuoso sul piano mediatico quanto sterile su quello politico.
Ho fatto, e continuerò a fare le mie battaglie per una legge elettorale diversa e più rispettosa dell’identità del PD e della sua natura, a cominciare dalla doppia preferenza di genere per giungere al tema delle soglie (che a mio avviso non rispettano il dettato costituzionale) passando per la garanzia delle rappresentanze territoriali e il rapporto stretto tra eletto ed elettore.
Su questo c’è ancora molto da fare. Ed essersi dimostrati leali, coerenti e responsabili nella circostanza ritengo sia un elemento in grado di far aumentare la credibilità delle nostre ragioni in futuro. |