La sentenza della Corte Costituzionale ci ha riconsegnato una legge elettorale proporzionale. Ed ecco subito scendere in campo i molti fautori del bipolarismo che esigono leggi elettorali (di impianto sostanzialmente maggioritario) in grado di imporlo agli elettori recalcitranti. Invocano la stabilità dei governi mettendo in secondo piano la rappresentatività delle assemblee legislative. Dicono che solo con un sistema elettorale di impianto maggioritario, funzionale al bipolarismo, il voto degli elettori ha valore perché così essi possono scegliere chi li rappresenta, dimenticando che proprio nei Paesi in cui vige un tale sistema la gente non va a votare. Ad esempio, per la recente elezione del sindaco di New York, di cui tanto hanno detto i media, si è recato alle urne solo il 24% degli aventi diritto al voto. Ciò vuol dire che 3 newyorkesi su 4 hanno ritenuto che il risultato elettorale non avrebbe avuto alcuna incidenza sulle loro condizioni di vita.
A determinare la scarsa affluenza alle urne che si verifica nei Paesi a sistema elettorale di impianto maggioritario entrano in gioco varie motivazioni.
Nelle competizioni bipolari, ciascuno dei due partiti in campo cerca di conquistare i voti della fascia mobile dell’elettorato (quella non pregiudizialmente schierata), che i media definiscono “di centro” (inteso in senso politico e in senso sociale). Così agendo, è inevitabile che i due contendenti cerchino di diluire le loro identità politico-ideologiche, mentre i progetti e le proposte delle due parti tendono ad assimilarsi. Le forze in campo risultano, pertanto, solo formalmente alternative, mentre non lo sono nella sostanza, rappresentando gli interessi di gruppi economici e sociali in larga misura sovrapponibili. Ovviamente l’elettore che non riconosce come propri tali interessi è disincentivato a recarsi ai seggi.
Viene detto che nei sistemi maggioritari ad essere escluse sarebbero solo le formazioni estreme, incapaci di elaborazioni politiche realistiche (il cosiddetto “taglio delle ali”). Ma le cose non stanno così. Temo che ad essere tagliati fuori dal Parlamento non siano solo gli “estremisti”, in senso strettamente politico-partitico, ma siano soprattutto escluse le rappresentanze delle fasce sociali più deboli e le voci di quanti non accettano passivamente le logiche e gli idoli imposti dalla società globale.
Una politica capace di dare voce ai “non garantiti”e a quella parte di società oggi esclusa trova più spazio in un quadro pluripartitico, ancorato a un sistema elettorale di impianto proporzionale che, come vuole la nostra Costituzione, ponga al centro il Parlamento (un Parlamento non ridotto a semplice predellino per salire al governo, come vorrebbero certuni). Infatti, in tale quadro, per un partito non è essenziale avere il voto in più per “vincere”, ma ad esso importa conseguire una significativa, o meglio rilevante, presenza nella sede in cui si elaborano le iniziative legislative (il Parlamento) e dove si può concorrere con altre forze a concordare un programma di governo condiviso e fattibile.
In un sistema bipolare, invece l’obiettivo di ciascuno dei due partiti in competizione è avere proprio quel voto in più dell’avversario necessario per “vincere” e andare al governo. Non si può rischiare, pertanto, di perdere voti per correre dietro alle necessità di quella fascia di cittadini (costituita dagli esclusi e dai non garantiti) che probabilmente non va neppure a votare. In tutto ciò, c’è l’idea alquanto semplicistica che solo dalla “stanza dei bottoni” governativa sia possibile incidere sulla realtà e dare soluzione ai problemi o addirittura cambiare il Paese. Si sopravvaluta il ruolo del governo perché nelle sue stanze non ci sono i magici “bottoni”di comando, mentre ogni decisione operativa deve fare i conti con il freno inerziale delle burocrazie, con centri di potere di varia natura, con i diffusi privilegi di categorie influenti, con i ricatti del mondo finanziario (pronto giudicare gli atti politici e a dare sanzioni mediate l’andamento della borsa e dello spread), con la protesta di quegli elettori che non vedono prendere corpo, in tempi brevi, le promesse fatte in campagna elettorale.
Chi governa ha sempre un compito difficile, tuttavia è evidente che le difficoltà si accrescono quando ha alle spalle un limitato consenso elettorale e maggioranze parlamentari aritmetiche, ma non rappresentative del Paese. In tal modo, i sistemi maggioritari non ci danno governi capaci di forti decisioni, al contrario.
Non è un caso che, in Francia, Sarkozy e Hollande (eletti alla Presidenza con il sostegno di solo il 20% degli aventi diritto al voto), pur disponendo di forti leve di comando, abbiano deluso quanti li hanno votati, non avendo saputo, o potuto, raggiungere gli obiettivi promessi. Negli Stati Uniti, Bush e Obama (anch’essi eletti dal 20-25% degli aventi diritto al voto) sono rimasti ben lontani dalla realizzazione di quei cambiamenti (pur di differente natura) annunciati in campagna elettorale. Invece, in Germania, con un sistema elettorale di impianto proporzionale, governi di coalizione sostenuti da solide maggioranze parlamentari (corrispondenti a un reale consenso elettorale) sono stati e sono in grado di condurre politiche efficaci e di successo.
Ma, ci dicono, non si può accettare il sistema elettorale scaturito dal giudizio della Consulta perché, fra le altre cose, bisogna rispettare il responso del referendum del 1993. Argomentazione strumentale. Sono passati vent’anni, e i pessimi frutti di questo trascorso ventennio “bipolare”giustificano di per sé un ripensamento. Aggiungo che il referendum del 1993 era relativo a complesse e non sempre chiare modificazioni dei meccanismi di elezione del Senato (formulate con un vero e proprio taglia e incolla). Attribuirgli il significato di un generalizzato rifiuto del proporzionale a vantaggio del maggioritario, come è stato fatto, è una interpretazione quanto meno impropria del responso. Teniamo conto, inoltre, che non ha avuto successo il successivo referendum tenuto nel 1999, il quale esplicitamente richiedeva l’eliminazione della quota proporzionale presente nel “mattarellum”. Di ciò dovrebbero ricordarsi quanti oggi propongono un “mattarellum” con modifiche che vanno nella stessa direzione già bocciata a suo tempo.
Rilevo ancora che la preoccupazione di rispettare gli esiti referendari non sembra essere mai emersa nel caso di altri referendum (responsabilità civile dei magistrati, abolizione del ministero dell’agricoltura e delle foreste), i cui esiti sono stati vanificati senza che alcuno degli attuali zelanti difensori del maggioritario abbiano mai trovato a ridire.
Bisogna, tuttavia, riconoscere che nessuno ha in tasca la soluzione per superare la crisi profonda della democrazia rappresentativa (l’assenteismo elettorale ne è sintomo inequivocabile), essendo essa principalmente legata alla debolezza della politica, alla quale sottrae sempre più spazio il dominio assoluto assunto dal mercato nella società globale. Inoltre, nella cosiddetta modernità liquida in cui ci troviamo a vivere, caratterizzata da una società frantumata e da un individualismo estremo, manca il senso di appartenenza alla comunità necessario per determinare interessi condivisi e comuni obiettivi. Condurre una politica tesa a realizzare il bene comune (guardando alla condizione di tutti, senza lasciare indietro nessuno) richiede una vera e propria rivoluzione culturale, ma al momento non se ne vedono segnali. Se le forti parole di denuncia pronunciate da Papa Francesco nei confronti dell’iniquità del modello economico-sociale odierno saranno in grado di raggiungere non solo i credenti ma tutte le persone di buona volontà, forse qualche cosa inizierà a muoversi. |