Di fronte all’incessante afflusso di migranti che investe il nostro Paese e l’Europa, e alle recenti tragedie del mare con centinaia di vittime, nel dibattito pubblico e nei media, prevale l’emotività orientata in varie direzioni: c’è chi si sofferma sui soli aspetti drammatici e dolorosi del fenomeno; c’è chi è spaventato da quella che ritiene un’invasione; c’è infine chi teorizza incondizionate aperture a tutti quanti richiedono l’ingresso nel nostro Paese.
Forse è il caso di partire da alcuni dati oggettivi. In Europa (Russia, Bielorussia e Ucraina escluse) vivono poco più di 500 milioni di abitanti su 5 milioni di kmq, con una densità media di 100 abitanti per kmq (ma in Italia la densità é di 197 abitanti, in Germania di 230, in Gran Bretagna di 257 per kmq, in Belgio e Olanda è ancora maggiore).
I Paesi a cui in passato (a cavallo tra XIX e XX secolo) si era indirizzata la nostra emigrazione avevano una densità di popolazione molto bassa, che ancora oggi risulta molto inferiore a quella europea (33 abitanti per kmq gli Stati Uniti, 15 l’Argentina, 3 il Canada e l’Australia). Gli Stati Uniti si sono chiusi alla massiva immigrazione europea nel secondo decennio del XX secolo, quando la popolazione non raggiungeva ancora i 20 abitanti per kmq, con la motivazione che il Paese era già “pieno”.
L’Europa è certamente in condizione di dare asilo a rifugiati a seguito di guerre o analoghi eventi circoscritti, mentre è lecito dubitare che essa sia terra atta a ricevere grandi ondate migratorie senza esplodere. Aggiungo che, nella crisi odierna, destinata a durare, c’è, in molti Paesi europei (Italia in primis), una estesa disoccupazione che non consente di offrire agli immigrati un regolare inserimento lavorativo, mentre una loro idonea accoglienza comporta costi difficilmente sostenibili con i bilanci pubblici attuali. Si controbatte che gli immigrati sono necessari per svolgere i lavori che i residenti non intendono più fare; si aggiunge che gli immigrati colmano i vuoti di popolazione giovanile in un’Europa abitata da anziani. Ma presumere che ci siano lavori inadatti per noi da riservare a soggetti dalle esigenze limitate è una tesi alquanto razzista e pertanto inaccettabile, mentre altre sono le misure da prendere in tema di denatalità, perché non è con i trapianti di popolazioni che l’Europa eviterà il tramonto della sua millenaria civiltà.
Mi soffermo su un aspetto che viene totalmente ignorato dai media e nel dibattito in corso. Si tratta del drammatico impatto che il fenomeno migratorio ha sui paesi di origine dei migranti. Khalid Koser (Le migrazioni internazionali, Il Mulino) ci fornisce numeri dirompenti. L’emigrazione dai Paesi dell’Africa anglofona (in particolare da Malawi e Zambia) ha coinvolto, verso il solo Regno Unito, gran parte dei medici e del personale infermieristico formatosi dopo l’indipendenza nazionale. Lo stesso discorso vale per gli insegnanti, di cui si registra la fuga all’estero. Ci sono poi quanti, con titoli di studio e qualifiche lavorative importanti per il Paese di origine, vanno nel nord del pianeta a svolgere lavori umili che mai avrebbero fatto a casa loro: laureati e diplomati sono impiegati come muratori, camerieri o badanti. Anche quando i migranti non hanno particolari qualifiche, essi sono sempre soggetti più dinamici della media della popolazione del proprio Paese, sovente con a disposizione qualche risparmio da utilizzare per l’espatrio. Ci troviamo quindi di fronte a una rilevante perdita di risorse umane che pesa grandemente sui Paesi poveri. Si aggiunga che, in specie in Africa, la classe politica locale, corrotta e dispotica, favorisce la partenza di chi, per dinamismo e capacità, potrebbe costituire un’alternativa al suo potere o semplicemente essere un fattore di destabilizzazione degli assetti attuali. Se continua l’esodo dei più capaci, la qualità del ceto dirigente di tali Paesi, oggi purtroppo assai scadente, non cambierà mai in meglio.
Con la lucidità di pensiero che lo contraddistingue, Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate, evidenziando l’importanza dei fenomeni migratori che caratterizzano la nostra epoca, ha scritto che essi sono causa di sofferenza per quanti ne sono implicati e pongono difficili problemi sia nei Paesi di origine dei migranti sia in quelli di approdo. Per l’anziano Pontefice, la strategia principale per affrontare il fenomeno consiste nel migliorare la situazione e le condizioni di vita delle persone nel loro Paese di origine affinché non siano costrette a emigrare. Quindi per raggiungere questo obiettivo, bisogna innanzitutto prendere in considerazione le cause che determinano i processi migratori.
Fra i migranti, ci sono quanti fuggono dalle guerre che insanguinano i Paesi più fragili dell’Africa e del Medio Oriente, guerre che possono avere cause locali, ma che sempre sono alimentate dal Nord ricco del pianeta per interessi economici o per logiche di potenza. Ci sono in numero crescente i profughi per motivazioni ambientali, provenienti da zone (come la fascia saheliana o il Bangladesh) nei quali le modificazioni climatiche stanno creando danni devastanti. E anche qui i responsabili vanno ricercati nei Paesi sviluppati (e nell’odierna Cina), ai quali risale la maggiore produzione di gas-serra.
Tuttavia, la causa principale che spinge i migranti verso il mondo sviluppato è la grande differenza di reddito fra Nord e Sud del pianeta. Il PIL medio pro capite annuo (parametro correlato al reddito) dei Paesi sviluppati occidentali è compreso tra i trentamila e i sessantamila dollari; quello dei Paesi non petroliferi del Nord Africa e del Medio Oriente è compreso tra i duemilacinquecento e i seimila dollari, mentre nell’Africa nera esso precipita (con poche eccezioni) sotto i mille e talora i cinquecento dollari. È tale divario a costituire il motore che alimenta le migrazioni; non è la povertà assoluta (che esiste e della quale ho visto esempi sconvolgenti in Burundi), perché quanti vivono nella miseria più estrema raramente sono nelle condizioni di intraprendere il cammino verso il mondo opulento. Oggi il numero dei migranti è ancora limitato, ma destinato a crescere. Poiché milioni di africani e di asiatici non potranno trasferirsi in Europa, è evidente che presto si imporrà comunque uno stop.
Che cosa c’è alla base del divario di reddito che induce a migrare? Gli abitanti del mondo industrializzato (Nord America, Europa, Giappone, Australia e Paesi assimilabili) assommano complessivamente a 1,3 miliardi, e, pur costituendo solo 1/6 della popolazione mondiale, fanno ancora oggi la parte del leone nell’accaparramento delle risorse planetarie, malgrado i Paesi emergenti li inseguano da vicino. Allora si pone la questione di rivedere la distribuzione delle risorse tra il Nord opulento e il Sud povero del mondo.
È pensabile che ciò possa avvenire senza un radicale ridimensionamento dei nostri standard di consumi e del nostro tenore di vita? È credibile ciò che dicono Fondo monetario, Banca mondiale, governi occidentali e la maggioranza degli economisti quando affermano che è sbagliato litigare su come dividere la torta delle risorse e che bisogna invece accrescerla affinché aumenti la fetta di ognuno? Peccato che la torta abbia difficoltà a crescere illimitatamente perché le risorse non rinnovabili vanno verso l’esaurimento e costano sempre di più, mentre non ci sono credibili politiche di sviluppo sostenibile sul lungo periodo. Luciano Gallino ha denunciato che, ai livelli attuali dei consumi, occorrono già le risorse di una Terra e mezza (difatti stiamo dilapidando il capitale Terra), e che, se ogni abitante del mondo consumasse (anche nella crisi attuale) quanto un cittadino medio dei Paesi opulenti (e in particolare degli Stati Uniti), ci verrebbero le risorse di quattro pianeti Terra.
Certamente è in corso un miglioramento di produttività nell’uso delle risorse disponibili e sono in cantiere innovazioni tecnologiche. Nel contempo, la pressione sulle fonti energetiche e sulle risorse non rinnovabili si fa sempre più forte. Ne sono cause la crescita dei consumi ancora oggi perseguita dai Paesi sviluppati dell’Occidente e la moltiplicazione della domanda da parte delle moltitudini dei Paesi emergenti che inseguono i nostri modelli di vita. Se aggiungiamo che la popolazione del pianeta si avvia, per la metà del secolo, a superare i nove miliardi, è inevitabile che la domanda di energia e di materie prime cresca più velocemente di quanto possano garantire una loro migliore efficienza di impiego e il prevedibile sviluppo tecnologico. Per le popolazioni dell’Africa (ove tra l’altro la crescita demografica continua a essere molto elevata), le risorse, a partire da quelle alimentari, sono destinate a ridursi sempre di più.
Pertanto occorre, sul piano politico, una strategia chiara che affronti il problema alla radice. Invece, nei Paesi sviluppati, nessuno (a destra come a sinistra) sembra voler fare i passi necessari, in quanto una diversa e più giusta distribuzione delle risorse del pianeta è incompatibile con l’attuale assetto politico ed economico. Eppure sarà inevitabile percorrere questa strada.
Nel frattempo, che fare? In primo luogo, non aggravare i problemi: quindi dire di no alle sempre irresponsabili iniziative belliche, comunque motivate. Dobbiamo, inoltre, incamminarci seriamente e velocemente nella sostituzione dell’energia da carburanti fossili con le fonti rinnovabili per non peggiorare ulteriormente la situazione ambientale, come indica il recentissimo (27 settembre 2013) rapporto sul clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (organo delle Nazioni Unite). Teniamo presente che gli effetti negativi dei cambiamenti climatici sono più devastanti nei Paesi poveri, perché più fragili e incapaci di prendere contromisure in materia. In secondo luogo, bisogna stanziare più significative risorse economiche per l’aiuto allo sviluppo sostenibile dei Paesi poveri, senza passare attraverso le molte corrotte cricche di potere (dei Paesi destinatari, ma non solo) che si appropriano di tali aiuti, mentre i governi dei Paesi “donatori” chiudono gli occhi per convenienze politiche e per interessi economici o affaristici.
Le drammatiche vicende dei naufragi e la dovuta attenzione all’accoglienza dei rifugiati non ci devono distogliere da un serio esame delle cause dei fenomeni migratori, mentre si fa urgente la necessità di elaborare idonee politiche per metterli sotto controllo, renderli gestibili e dare ad essi soluzione. |