È quasi sempre stato così nella politica italiana. Ogni qualvolta nei grandi partiti popolari e democratici – e quindi né padronali e né personali – si avvicina la data per scegliere il segretario di turno, cresce in modo plateale e persin grottesco la disponibilità di molti a “soccorrere” il vincitore o, detto con un gergo più carnevalesco, a salire sul “carro del vincitore”.
È una costante della politica italiana, ieri come oggi. Fa parte del nostro costume, sono inutili i facili moralismi. Ed è anche inutile sottolineare la profonda diversità storica tra l’esperienza del più grande partito della Prima Repubblica, la DC, con quella del più forte partito della cosiddetta Seconda Repubblica, cioè il PD. L’elemento che accomuna il passato – politicamente archiviato e non più riproponibile – con il presente non è il modello organizzativo, l’impianto statutario o il profilo politico dei partiti, ma il comportamento dei singoli esponenti politici quando si avvicinano le date dei congressi. Si potrebbero fare mille esempi. Ne faccio uno solo. Come non ricordare, negli anni ’80, lo strapotere nella DC dell’epoca e nel Paese dell’allora segretario nazionale dello scudocrociato Ciriaco De Mita? Un potere che culminò con la sostanziale convergenza di tutte le correnti dell’epoca – un tempo si chiamavano così, con minor ipocrisia del presente – sulla sua candidatura a segretario nazionale per svariati anni. Al punto che la sola corrente della sinistra sociale di Forze Nuove guidata dall’agguerrito Donat-Cattin si opponeva politicamente con un misero ma battagliero 7% del partito. E non si contavano, cammin facendo, le “conversioni” e le “giravolte” di molti notabili DC del centro e della periferia nel sottolineare le virtù e le doti politiche – certamente indubbie – del leader avellinese.
Per tornare ad oggi, il PD – grande partito democratico, popolare e di massa – si appresta a celebrare, seppur con fatica, il suo congresso. Certo, le differenze sono notevoli. Ieri con le tessere, oggi con le primarie. Ma, al di là di questo dato burocratico e regolamentare, tutti sappiamo che dovrebbe vincere la prossima sfida delle primarie per la segreteria del partito il Sindaco di Firenze. Fin qui nulla di sconvolgente. Quello che incuriosisce, e che stupisce, è la quotidiana esaltazione della proposta politica, del modo di far politica e delle virtù politiche del giovane Sindaco di Firenze da parte di esponenti – a livello nazionale come a livello locale – che sono e restano lontani dal profilo e dall’esperienza politica di Renzi. Al punto che è lo stesso Renzi – e soprattutto i suoi collaboratori – a ricordare pubblicamente e ad invitare costoro a non salire “sul carro del vincitore” per le troppe diversità politiche con i suoi presunti supporter. Il che, sia detto con chiarezza, è del tutto normale e persin scontato.
Certo, i tempi sono profondamente cambiati e Renzi è lontano da De Mita e Cuperlo è lontanissimo da Donat-Cattin. Ma la pratica politica del cambiamento improvviso e della disponibilità a “soccorrere” il vincitore, soprattutto a livello periferico, restano capisaldi essenziali anche nella decadente Seconda Repubblica, e negli stessi partiti che hanno l’ambizione di intercettare tutto ciò che di nuovo e di moderno emerge dalla società. Il problema di fondo è però sempre lo stesso: se si vuole salvare la credibilità della politica e la serietà della sua proposta, la vera sfida è sempre quella di cercare di essere il più possibile coerenti con la propria storia, la propria formazione e il proprio percorso politico e culturale. E questo a prescindere dalle personalità e dal progetto politico di Renzi o di Cuperlo.
Qualcuno lo può ritenere un retaggio del passato. Io continuo a pensare che siano gli unici elementi per evitare, periodicamente, di cercare di salire sul “carro del vincitore” anche a rischio di essere gentilmente invitati dal titolare stesso a scendere per evitare di far deragliare il carro. |