Pubblichiamo un articolo scritto qualche giorno fa, ma assai utile ad aprire su queste pagine on-line un dibattito sulla presenza dei Popolari nel Partito Democratico. La tesi dell’Autore, docente di Comunicazione politica alla LUISS, è riassunta nel titolo ed è forse troppo drastica. Certo è che, in vista del prossimo congresso, il PD sta subendo una evoluzione (o involuzione?) che seguiremo con attenzione.
Nell’ultima settimana, ho letto molti commenti sul percorso di avvicinamento al congresso del PD. Negli ultimi giorni, poi, l’endorsement di Dario Franceschini per Matteo Renzi ha animato analisi e commenti sull’incontro-scontro fra tradizione DS (e post-comunista, come scrivono molti autorevoli commentatori) e tradizione Margherita (e post-democristiana, come scrivono altri autorevoli commentatori). In realtà, molte delle analisi insistono – invero in maniera un po’ superficiale – sul fatto che la “tradizione post-comunista” non avrebbe compreso il “nuovo” che avanza.
Credo che la questione sia posta male. Per non parlare dei molti – anche interni al PD – che parlano della tradizione post-comunista (che sarebbe meglio chiamare, più correttamente, socialdemocratica) usando argomenti non dissimili (se non per i toni) dalla propaganda berlusconiana degli ultimi vent’anni.
Non credo che il dibattito politico intorno alle candidature di Matteo Renzi e Gianni Cuperlo possa essere rubricato al conflitto fra le due principali (non le uniche) aree culturali costitutive del PD. Fare un’analisi di questo tipo significa non prendere atto che esistono molti “nativi PD”, soprattutto fra quei giovani che rappresentano la parte più propositiva e attiva del Partito Democratico; significa non comprendere che esiste una trasversalità delle posizioni che investe due idee di società che semplificando chiamiamo (nel caso del PD) di “centro” e di “sinistra” ma che non hanno alcun legame con le vecchie tradizioni dei partiti (al di là, ovviamente, della provenienza delle persone).
Vorrei, tuttavia, porre un’altra questione. Molti commentatori hanno decretato la presunta fine della tradizione di “sinistra” che sarebbe ora minoritaria nel PD. Faccio umilmente notare che l’endorsement di Franceschini e Fioroni per Renzi decreta invece la fine della tradizione cattolico-democratica.
Parlo di quella tradizione che, muovendosi da alcune intuizioni “popolari” di don Sturzo, si era sviluppata intorno al pensiero di Giuseppe Dossetti. E che, nel tempo, aveva attraversato la politica italiana nutrendosi dei valori della Dottrina sociale della Chiesa. Quella tradizione che aveva permeato personalità come Ermanno Gorrieri, Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, Guido Bodrato, Tina Anselmi, Paolo Giuntella e tante/i altre/i protagonisti della stagione dell’impegno dei cristiani in politica.
Si tratta di una tradizione che non ha mai rifiutato il confronto col cambiamento e che si è lasciata ibridare dal confronto ecumenico e dal rapporto con la tradizione politica socialdemocratica.
L’impegno dei cristiani per una società diversa, più giusta e solidale, che sostenga gli ultimi, per una politica che faccia una scelta preferenziale per i più deboli e per una democrazia aperta e partecipata non vanno certo qui spiegate. La “simpatia” – proprio sui temi di un mondo più solidale e pacifico – fra il Sinodo Valdese da poco concluso e i primi passi del pontificato di papa Francesco è un altro elemento di questa “sensibilità”.
I temi della dottrina sociale della Chiesa (l’uguaglianza, la giustizia sociale, l’accesso, la possibilità che la casualità della nascita non predetermini il futuro) sono presenti in una buona parte della tradizione del PD: in quella socialdemocratica innanzitutto (e il documento di Gianni Cuperlo evidenzia questo aspetto in maniera chiarissima) e nell’impegno di quelli che venivano dalla tradizione cattolico-democratica.
Stupisce un po’ che si riapra una sorta di “questione cattolica” nel PD, con toni peraltro strumentali. Dopo la propaganda berlusconiana (e il cedimento valoriale di alcuni settori del cattolicesimo italiano alle sirene della conservazione) non se ne sentiva proprio l’esigenza. Ma poiché si discute di questo, sarà bene ricordare che il radicalismo evangelico di Dossetti non ha nulla a che fare con il progetto (pur legittimo e nobile) di un partito liberale con uno sguardo moderatamente progressista come traspare dalle affermazioni di molti esponenti del PD (compreso Renzi, su cui è possibile solo discutere a partire dalle affermazioni nei comizi dal momento che non esiste un documento programmatico o “note” di discussione congressuale).
Un partito neo-liberale di impianto moderatamente progressista può sicuramente rappresentare un’importante opportunità politica. Era, a pensarci bene, il progetto iniziale di Nick Clegg in Gran Bretagna: significativo che poi i Lib britannici si siano alleati con i Conservatives di Cameron e non certo con il Labour. Ma questa è un’altra storia, sebbene possa essere utile non dimenticarla.
Un partito moderno, neo-liberale e moderatamente progressista potrebbe sicuramente offrire proposte interessanti alla politica italiana, perpetuando – in forme forse più alte e intelligenti – quell’idea di “anestetizzazione del conflitto” che è sì tranquillizzante ma è anche alla base del blocco di tutti gli ascensori sociali e delle speranze di futuro. Il conflitto, invece, – strutturato, gestito e pacifico – è alla base dell’evoluzione sociale delle democrazie avanzate ed è capace di produrre fiducia e speranza (elementi che sia Keynes sia oggi Krugmann pongono a fondamento di un’economia che possa invertire la tendenza conservativa della crisi). Anche qui siamo in presenza di due diverse idee di società, che trovano spazio in due diverse idee di partito. Da una parte il partito collettore di interessi diffusi, idoneo alla conquista del potere (il “partito taxi” come lo definiva Manzella già nel 1995), flessibile e capace di adattarsi al mutamento; dall’altra parte il partito che nasce da identità relazionali, che dispone di un progetto che costruisce democraticamente con le cittadine e i cittadini, capace di guidare e gestire il mutamento.
Le differenze sono componibili, è certo. Ma non si può dire che non esistano.
Le idee di società solidale e di un partito capace di progetto e speranza sono comuni alla tradizione socialdemocratica e a quella del cattolicesimo democratico.
Quello che accade nel PD oggi non c’entra nulla con lo scontro “DC-PCI” da anni Cinquanta e Sessanta che alcuni commentatori evocano, usando categorie analitiche che non hanno più senso e che non si adattano (neanche anagraficamente) al modo di vivere la politica delle giovani democratiche e dei giovani democratici. Lo scenario PD che si ricava dai media è un altro.
Non so quale sarà il futuro a breve del PD, né se veramente si andrà al “candidato unico” in puro stile sovietico evocato da Fioroni. Di sicuro c’è che gli accadimenti degli ultimi giorni cancellano di fatto la tradizione cattolico-democratica dall’orizzonte possibile del PD.
Tratto da http://michelesorice.org/2013/09/04/la-fine-del-cattolicesimo-democratico/ |