Sta succedendo un fatto nuovo, che merita di venire messo in evidenza perché potrebbe indicare una benedetta svolta verso una tregua in Ucraina. Da quasi due anni e mezzo, precisamente dal 24 febbraio 2022 siamo abituati a leggere ed ascoltare una narrazione univoca e dominante sulla tragedia: l’aggressione russa, l’eroica resistenza del popolo ucraino, l’obbligo morale degli USA e degli Stati dell’Unione europea aderenti alla NATO di aiutare concretamente il Paese aggredito, un fronte in cui l’Occidente libero e democratico deve fare argine contro la barbarie e fermare l’espansionismo della Russia di Putin. Non ci potrà essere una pace fino a quando il suolo ucraino non sarà libero dall’esercito occupante, quindi sino alla vittoria finale dell’Ucraina. Che necessita di sempre maggiori aiuti e armi agli alleati occidentali, anzi, di un sempre maggior loro coinvolgimento nel conflitto, unica possibilità per non soccombere.
La nostra idea sul tema è nota, in piena sintonia con papa Francesco: “La guerra è una follia”, che va evitata ad ogni costo. Ma i consiglieri occidentali del governo ucraino a suo tempo non hanno fatto nulla per evitarla, né per rendere possibile un armistizio che pareva a portata di mano a fine marzo 2022 dopo il fallimento della guerra-lampo pensata da Putin. Allora morti e feriti si sarebbero contati a poche migliaia. Oggi siamo probabilmente arrivati a mezzo milione di vittime. Mancano comunque sempre dati ufficiali, che i governi tacciono per ciò che riguarda i propri uomini, e che i media occidentali non indagano, limitandosi ad amplificare le nefandezze russe e i successi ucraini, e tacendo tutto ciò che può instillare dubbi sull’appoggio incondizionato a Zelensky e i suoi.
Ma ecco la svolta: lunedì scorso sul sito di “Repubblica” (quotidiano da sempre in prima fila nella narrazione pro Ucraina) compare il sorprendente articolo dell’inviato Paolo Brera che racconta il fenomeno dei disertori nell’esercito di Kiev, con numeri – forniti da fonti ucraine – che impressionano: ci sono già stati “80mila abbandoni non autorizzati di unità”, mentre “il Paese ha perso 14 milioni di cittadini – da 42 a 28 milioni – in gran parte fuggiti o riparati all’estero” e “almeno il 50% di coloro che hanno lasciato il Paese ha preso il biglietto di sola andata: addio, e a mai più”. Va detto che dopo un paio d’ore dalla pubblicazione l’articolo è scomparso dall’home page del quotidiano (avrà dato fastidio a qualcuno?), ma noi abbiamo recuperato il link in calce che vi permetterà di leggerlo.
Mettendo insieme la novità piccola ma eloquente della pubblicazione, i dati riportati, il fronte ucraino a rischio collasso nel Donbass sguarnito di soldati per sostenere l’attacco nel territorio russo di Kursk, l’iniziativa diplomatica del cancelliere Scholz – tardiva reazione a una guerra che ha messo in crisi l’economia tedesca portando i partiti estremi neonazisti e rossobruni a percentuali che ricordano i primi anni Trenta – siamo forse vicini a una tregua.
Vedremo.
Sappiamo bene che i guerrafondai hanno interesse a spremere il più possibile i bilanci degli Stati e che la lobby delle armi è potentissima negli USA: ma non è ancora chiaro come incideranno le elezioni presidenziali di novembre sulla politica estera americana. Avremo modo di parlarne. Al momento buona lettura.
CLICCA QUI per leggere l’articolo di “Repubblica”.
La nostra idea sul tema è nota, in piena sintonia con papa Francesco: “La guerra è una follia”, che va evitata ad ogni costo. Ma i consiglieri occidentali del governo ucraino a suo tempo non hanno fatto nulla per evitarla, né per rendere possibile un armistizio che pareva a portata di mano a fine marzo 2022 dopo il fallimento della guerra-lampo pensata da Putin. Allora morti e feriti si sarebbero contati a poche migliaia. Oggi siamo probabilmente arrivati a mezzo milione di vittime. Mancano comunque sempre dati ufficiali, che i governi tacciono per ciò che riguarda i propri uomini, e che i media occidentali non indagano, limitandosi ad amplificare le nefandezze russe e i successi ucraini, e tacendo tutto ciò che può instillare dubbi sull’appoggio incondizionato a Zelensky e i suoi.
Ma ecco la svolta: lunedì scorso sul sito di “Repubblica” (quotidiano da sempre in prima fila nella narrazione pro Ucraina) compare il sorprendente articolo dell’inviato Paolo Brera che racconta il fenomeno dei disertori nell’esercito di Kiev, con numeri – forniti da fonti ucraine – che impressionano: ci sono già stati “80mila abbandoni non autorizzati di unità”, mentre “il Paese ha perso 14 milioni di cittadini – da 42 a 28 milioni – in gran parte fuggiti o riparati all’estero” e “almeno il 50% di coloro che hanno lasciato il Paese ha preso il biglietto di sola andata: addio, e a mai più”. Va detto che dopo un paio d’ore dalla pubblicazione l’articolo è scomparso dall’home page del quotidiano (avrà dato fastidio a qualcuno?), ma noi abbiamo recuperato il link in calce che vi permetterà di leggerlo.
Mettendo insieme la novità piccola ma eloquente della pubblicazione, i dati riportati, il fronte ucraino a rischio collasso nel Donbass sguarnito di soldati per sostenere l’attacco nel territorio russo di Kursk, l’iniziativa diplomatica del cancelliere Scholz – tardiva reazione a una guerra che ha messo in crisi l’economia tedesca portando i partiti estremi neonazisti e rossobruni a percentuali che ricordano i primi anni Trenta – siamo forse vicini a una tregua.
Vedremo.
Sappiamo bene che i guerrafondai hanno interesse a spremere il più possibile i bilanci degli Stati e che la lobby delle armi è potentissima negli USA: ma non è ancora chiaro come incideranno le elezioni presidenziali di novembre sulla politica estera americana. Avremo modo di parlarne. Al momento buona lettura.
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In generale ho l’ impressione che le opinioni (tutte e di quasi tutti). siano espresse in perfetta buona fede, ma a prescindere dalla effettiva fattibilità di quanto auspicato. Già ho detto che i pacifisti hanno ragione, peccato che non dicano come si ottiene la presenza attorno ad un tavolo di TUTTI gli interlocutori, anche di quelli che stanno vincendo (e non sono certo gli Ukraini). I guerrafondai per come hanno sinora aiutato l’ Ukraina sembrano più propensi a far continuare la guerra piuttosto che a risolverla, fosse anche con la vittoria (impossibile) dell’ Ukraina. A me pare che il realismo debba partire dalla constatazione che la Russia non deve vincere, ma non può perdere, e l’ Ukraina non deve perdere, ma non può vincere. Da ciò deriva che gli aiuti all’ Ukraina devono essere quelli necessari e sufficienti a convincere Putin che ha di fronte un muro, ma Zelenski che se non cede qualcosa di significativo porterà la sua nazione a sicura rovina. Non mi sembra purtroppo che in occidente ci sia la volontà di perseguire un obiettivo realistico ed equilibrato. Gli Stati Uniti, salvo che non abbiano esaurito il budget, trovano comodo danneggiare la Russia con morti e feriti altrui; l’Europa non ha l’unità minima sufficiente per imporre una qualunque visione di politica estera e di futuro. Quando qualcuno suggeriva di distinguere in modo più netto tra Comunità Europea e Nato è stato presto accantonato. Esemplare oggi la posizione dell’Italia che dice che bisogna dare le armi alla Ukraina, salvo vietarle di usarle in modo adeguato. Con questo Occidente di fronte chi convincerà Putin a trattare?
Io spero sempre che il realismo, eminente virtù cristiana e liberale, prevalga a un certo punto. La guerra russo ucraina è il punto di caduta di quelle tensioni che inevitabilmente accompagnano la transizione tra due modelli di ordine internazionale. Sintetizzando all’estremo oggi assistiamo al passaggio da quel modello unipolare che sostituì, ma si trattò di una fase transeunte ed effimera, l’ordine bipolare scaturito da Yalta: gli USA non si sono dimostrati capaci di gestire sul piano politico e militare il neoliberismo finanziario che ha colonizzato con efficacia il pianeta e si identifica con il processo noto col nome di globalizzazione; oggi molti osservatori seri, anche (se non soprattutto) oltreoceano, guardano con preoccupazione ai costi economici e politici della sovraesposizione del Paese su una pluralità di quadranti geopolitici. E’ curioso, forse una coincidenza ma più coincidenze costituiscono una prova: le transizioni epocali si concentrano sempre intorno alla Russia, anche oggi che nuovi formidabili attori sono presenti sulla scena mondiale. Accadde dopo la Rivoluzione francese quando Napoleone si convinse che l’estensione dell’Impero e dei principi rivoluzionari che paradossalmente (essendosi lui autonominato Empereur con grande scorno dei liberali di tutta Europa, Beethoven stracciò la dedica che gli aveva indirizzato dal frontespizio della sua terza sinfonia e compose la più bella di tutte le marce funebri) incarnava passava per la conquista della Russia; la guerra di Crimea con le potenze coalizzate contro la Russia segnalò le crepe strutturali dell’ordine sancito a Vienna; la Germania nazista sapeva che senza la Russia l’impianto del neonato Reich avrebbe svelato ben presto le sue fragilità.
Tenere a bada la Russia risorta dalle ceneri del crollo sovietico, impedirne l’integrazione – sia pure di segno competitivo e litigioso come è stato sin dai tempi di Pietro il Grande – con l’Europa intesa a creare un blocco eurasiatico forte nel nuovo mosaico multipolare è un imperativo quasi disperato per gli USA: neocons repubblicani e una componente importante dei democratici speravano che l’unilateralismo segnasse un punto di non ritorno, forse avevano attribuito un credito esagerato al mito della fine della storia? Ma i decisori conoscono probabilmente le lezioni della storia meglio di quanto non si creda e hanno ben presente il paradosso di una Russia “altra” rispetto all’Europa profonda di cui al tempo stesso ha rappresentato il baluardo, senza mai intendere o osare allargare i confini del Russky mir, della propria area di influenza slava. Disaccoppiare definitivamente mondo slavo ed Europa contro e nonostante quelle costanti che si ripropongono da quasi due secoli sembra essere la strategia tutta giocata in difesa degli Stati Uniti, anteponendo il proprio all’interesse del debole alleato europeo. Con buona pace delle narrazioni degne di un western di seconda categoria a cui si sono passivamente adeguati i media dell’occidente intero e che, come scrive Alessandro Risso, dovranno forzosamente mutare in favore di analisi più sofisticate, realistiche: ciniche se vogliamo ma di un cinismo che ha padri nobili, un realismo cinico che spazia da Machiavelli a Kennan e si spera esonderà dalle pagine di Limes per lambire i territori occupati dai cosiddetti media main stream.