Quirinale, a sinistra tutto tace



Mario Lavia    21 Gennaio 2022       0

Che cosa deve pensare un iscritto o un elettore del PD a cinque giorni dalla prima votazione per il Quirinale? «Ma noi per chi siamo?», immaginiamo si chieda quell’iscritto, quell’elettore.

Soddisfatto per lo sbarramento opposto al nome di Silvio Berlusconi (ma ci mancherebbe pure), poi c’è il buio. «Un Presidente autorevole», hanno twittato ieri con tre tweet identici (ma perché non farne uno solo?) Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza. Però sono capaci tutti di dire questa banalità.

Sabato scorso si è svolta una riunione della Direzione con i gruppi parlamentari della quale solo osservatori espertissimi hanno colto qualche sottigliezza, per il resto solo la formula di rito – il «pieno mandato al segretario di trattare» – senza che nulla venisse detto nemmeno sulla tattica parlamentare. Nessuno sa cosa immagini Letta, che vorrebbe – senza dirlo – Mario Draghi al Colle, per garantire la continuazione della legislatura, con quale premier, con quali novità programmatiche (a partire dalla legge elettorale, questione sulla quale il segretario del PD non ha mai chiarito concretamente come la pensa): in fondo sono questioni che dovrebbero interessare la base del partito.

Ieri, nel vertice dei tre a casa Conte, si è capito che non si riesce a salvare capre e cavoli perché l’avvocato ha detto chiaro e tondo ai suoi interlocutori che i parlamentari del M5s (quelli della scatoletta di tonno) hanno il terrore che eleggendo Draghi si ruzzoli verso le urne e allora addio alla scatoletta di tonno e agli stipendi che essa eroga mensilmente.

Dal loro punto di vista hanno ragione. Con Draghi al Colle, che governo si farà? E chi può dirlo, finché non c’è una trattativa con la destra, trattativa impossibile con Berlusconi in campo? Né si può correre il rischio, sfidando il Parlamento, di far impallinare l’uomo più autorevole d’Italia. Per farla breve, la situazione è totalmente incartata. L’iscritto al PD non ci sta capendo niente.

E d’altra parte siamo in una pièce di Feydeau: nei conciliaboli si tratta già su un governo che forse non ci sarà mai. Forse guidato da Marta Cartabia, forse da un politico a tutto tondo (rispunta in questa veste Pierferdinando Casini), forse con tutti i leader dentro, forse, forse…

Sono indubbiamente le ore nelle quali i partiti fanno i partiti, non c’è niente che gli piaccia di più che disegnare organigrammi di governo su pizzini (o Whatsapp) che volano di qua e di là, e già c’è la corsa a fare il ministro, mentre i segretari non vorrebbero stare accanto ad altri segretari: e poi chi, Conte o Di Maio? Letta o Zingaretti? Salvini o Giorgetti? Siamo alla Primissima Repubblica. Appesi a Berlusconi, e con un Presidente del Consiglio che vorrebbe garanzie: ma chi può dargliele? Nel buio, la partita si complica.

Chiariamoci: l’elezione del Presidente della Repubblica è affare dei parlamentari, così stabilì il Costituente che volle evitare derive plebiscitarie ritenute sempre dietro l’angolo quando si parla di elezione diretta da parte del popolo. E però qualcosa è cambiato, negli anni.

Oggi è proprio il clamoroso distacco del Parlamento dai cittadini a essere una possibile causa di scorciatoie populiste e demagoghe, è la stagnazione dell’aria del Palazzo a generare la malattia della democrazia: si dovrebbero in qualche modo aprire le finestre. E inoltre oggi c’è un’opinione pubblica abituata a intervenire più o meno direttamente su tutto, a decidere o quantomeno a metter bocca su qualsiasi cosa: nel che c’è anche una radice del moderno populismo. Ma è così.

Autocandidandosi, Silvio Berlusconi – come al solito, a suo modo, innovando – sta facendo una sorta di campagna elettorale: non riesce a mobilitare nessuno ma il popolo sa che lui è in campo. È una novità.

La bolla mediatica fa poi esplodere la “pubblicità” di una vicenda politica che tradizionalmente era oscura e “nascosta” al popolo. Pur restando una partita molto politicista giocata alla fin fine da una decina di persone, essa ha ormai assunto le caratteristiche di una fiction (“Romanzo Quirinale”), tanto che tutti i giornali vi dedicano una rubrichetta quotidiana come i feuilletton francesi dell’Ottocento, e ci aspettano giorni di maratone Mentana che faranno vedere la battaglia in diretta tv. Il popolo assiste, impotente.

Ora, pur comprendendo le esigenze tattiche e le ragioni della cautela, è incredibile che la sinistra non abbia uno o più candidati, nemmeno di bandiera (adesso si sente dire di una personalità esterna ai partiti: Liliana Segre?). È giusto che il “popolo della sinistra” sia costretto a guardare la tv o compulsare Twitter per sapere “per chi fare il tifo”? È saggio lasciare che in campo ci sia solo la destra?

Indoviniamo la risposta: non è il momento di calare le carte. Quando (e se) Letta calerà il suo asso sarà comunque troppo tardi perché la sua gente abbia potuto in qualche modo condividere la scelta; perché si sia potuto creare un certo clima attorno alla candidatura; perché questa partita super-élitaria sia diventata un minimo “democratica”.

Sarebbe stato bello se il PD avesse organizzato un’Agorà sul Quirinale: così, per discuterne fuori dalla montagna incantata del Nazareno. Per “sentire il polso” – come diceva un tempo la sinistra – del popolo, delle persone. Senza i vincoli penosi delle “quirinarie”, relitto sepolto dalla risacca populista. Ma insomma un qualcosa in grado di connettere sentimentalmente e politicamente il Partito alla sua base, una volta tanto.

(Tratto da www.linkiesta.it)


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