Le basi biologiche dell’essere umano



Giuseppe Ladetto    4 Novembre 2021       4

Sono di questi giorni le polemiche per la dichiarazione di Alessandro Barbero sulla diversità strutturale tra donne e uomini che si evidenzia anche nel modo in cui affrontano il lavoro, polemiche talora accompagnate da inviti ad estrometterlo da ogni ambito culturale o a “lapidarlo” nei social media. Al di là di ciò, si possono continuamente ascoltare prese di posizione sempre più differenziate, sovente opposte, nei confronti di tutto quanto riguarda la sessualità, i ruoli dei due sessi nella procreazione e nella cura dei figli, la condizione della donna in ambito lavorativo. Nei media, prevalgono i commenti a favore di quanto sinteticamente potremmo definire il “nuovo”. Tutto ciò genera disorientamento.

Senza entrare nel merito delle singole questioni, ritengo opportuno richiamare l'attenzione sulla dimensione biologica dell'essere umano, che, in questo dibattito, troppi non tengono più in alcuna considerazione.

Nell'evoluzione della vita sulla Terra, ha un ruolo centrale la trasmissione del patrimonio genetico da una generazione all’altra con il fine di ottenere una discendenza numerosa, capace di sopravvivere e di migliorare le proprie strategie riproduttive. Questa finalità ha guidato, mediante la selezione naturale, la costruzione anatomica, fisiologica ed etologica di ogni specie, compresa quella umana.

L'uomo, sul piano biologico, è un animale, ma certo non può essere considerato solo tale. Nel percorso evolutivo, si è verificato quel salto qualitativo consistito nella fusione di tutti gli elementi costitutivi della tipicità umana: l’intera gamma degli istinti, delle emozioni e dei sentimenti, il linguaggio, la ragione, la mente, un insieme che differenzia l’uomo dai suoi immediati predecessori e dà fondamento alla dignità umana. Tuttavia, pur riconoscendo il rilevante peso della ragione, della cultura e di quanto costituisce l’elemento spirituale, non possiamo mettere completamente da parte la componente biologica. Sarebbe come credere che di un edificio si possano demolire le fondamenta lasciandolo in piedi.

Nel regno animale, l'uomo appartiene alla classe dei mammiferi. Però, in ambito riproduttivo, si diversifica dalla quasi totalità delle altre specie di mammiferi: è tendenzialmente monogamo, ed entrambi i sessi, sia pure in diversa misura, si prendono cura dei figli. Invece nella classe degli uccelli, sono molte le specie monogame (in almeno una stagione riproduttiva, sovente per più stagioni e talora per tutta la vita) nelle quali anche i maschi si curano della prole.

Jared Diamond si chiede il perché di tale differenza tra mammiferi ed uccelli, e, inoltre, perché l'uomo abbia un comportamento più simile a quello degli uccelli che a quello degli altri mammiferi. La risposta parte da una considerazione di ordine generale. Chi è stato molto coinvolto in un'impresa di qualunque natura, mettendoci energie, tempo, denaro, non si fermerà davanti a difficoltà e impedimenti, e continuerà ad impegnarsi per portarla a compimento. Se invece ha speso poco, di fronte a ostacoli, facilmente la lascerà perdere e si rivolgerà ad altro.

Sulle femmine dei mammiferi, la gravidanza grava molto e le coinvolge fortemente. Per questo, le madri, alla nascita dei figli, non possono abbandonarli e sottrarsi alle cure che essi richiedono. Lo impone un forte istinto materno. Fra le cure, c'è l'alimentazione lattea che rappresenta un altro rilevantissimo peso.

Negli uccelli, la produzione di una o più uova è un impegno molto minore rispetto a quanto richiede la gravidanza. La femmina, può essere incline a non andare oltre se le difficoltà da affrontare sono rilevanti, di modo che in diverse specie di uccelli, già durante la cova delle uova, è prevista una collaborazione del maschio. Nel caso che, alla schiusa, i pulcini (come nei polli) siano in grado di alimentarsi autonomamente, le cure materne sono limitate alla sorveglianza e, nei primi giorni, a fornire calore ai piccoli nel nido. Non c'è quindi bisogno del maschio. Se invece, come in tutte le specie monogame di uccelli, i neonati sono implumi e richiedono cibo, calore e protezione, si impone la collaborazione di un maschio, altrimenti l'impresa fallisce. In tali specie, è la femmina che sceglie il compagno valutando la sua attitudine ad assolvere ai compiti di padre (abilità nel costruire il nido, assiduità nel corteggiamento e corretto adempimento del complesso cerimoniale nuziale, ecc.).

Diversamente da quanto accade negli altri mammiferi, nella nostra specie, non basta il solo impegno della femmina. Infatti il bambino nasce in uno stadio di sviluppo poco avanzato e richiede un tempo molto lungo (diversi anni) per essere autosufficiente. Nelle condizioni di un passato ancora a noi vicino, era pressoché impossibile che madre e figlio potessero sopravvivere senza l'intervento del partner maschile.

Per quale motivo, nella nostra specie e negli uccelli monogami, i maschi si devono impegnare nelle cure parentali pur avendo speso poco fino alla nascita dei figli? Perché altrimenti il loro geni riposti nei discendenti andrebbero persi con la morte di questi. Comunque lo scarso investimento fatto fino a quel punto li induce sovente ad un minor impegno rispetto alle compagne.

Si parla talora di guerra tra i sessi, o meglio tra i due membri della coppia monogama. Ne sono causa i tradimenti reali o potenziali. Ma perché la femmina dovrebbe tradire il compagno se, fra gli uccelli, è lei ad averlo scelto, e, nella nostra specie, è spesso lei che si è fatta scegliere grazie alle sue capacità seduttive? Perché vorrebbe sempre formare una coppia con un soggetto alfa (con i geni migliori per i figli), ma sono pochi in circolazione. Così, ancorché già “maritata”, se ha l'occasione, può essere tentata di avere un rapporto sessuale con un soggetto geneticamente di alto rango. I maschi, che mai hanno la certezza della loro paternità (mater certa, pater semper incertus), da un canto mettono in atto tutte le misure possibili di controllo della condotta della partner; dall'altro, sono portati a cercare rapporti con altre femmine per non investire tutte le loro chance su quella “compagna” che potrebbe averlo tradito facendogli allevare figli non suoi. Inoltre, se riesce comunque a fare dei figli con altre femmine, potenzia la sua discendenza.

Ora limitiamo lo sguardo alla sola nostra specie.

Abbiamo visto che donne e uomini sono indispensabili per la riproduzione, ma lo sono anche per le funzioni genitoriali, avendo ruoli ben definiti. Sulla donna sono ricaduti e ricadono i compiti più impegnativi (in primis gravidanza e allattamento), ma anche l’uomo ne ha di essenziali, ancorché meno onerosi: protezione dei figli e della compagna, fornitura di mezzi di sostentamento e di abitazione, contributo alla sorveglianza e all’istruzione dei figli, funzioni che, nei tempi passati, incidevano significativamente sulle possibilità di successo della prole, e che sono importanti ancora oggi.

Nel lunghissimo periodo in cui si sono formati i caratteri anatomici, fisiologici ed etologici della nostra specie, i maschi si dedicavano alla caccia mentre le femmine praticavano la raccolta di frutti, semi, radici, insetti. Il contributo alla fornitura di risorse alimentari per la famiglia, fornito dai due sessi, variava molto in rapporto alle caratteristiche dell'ambiente. Rilevante quello maschile nelle zone nordiche, nelle grandi praterie, nelle aree steppiche dove frutti e semi sono scarsi. Probabilmente maggiore quello femminile nelle aree tropicali.

Le diverse funzioni svolte dai maschi e dalle femmine al tempo della caccia e raccolta sembrano aver avuto influenza sul piano etologico. Ancora oggi si rivelano differenti le modalità con cui i maschi e le femmine affrontano situazioni di vita e attività lavorative. Ad esempio, secondo vari antropologi, uomini e donne si diversificano in tema di competitività. Quella maschile è di gruppo, poiché la caccia richiedeva forte capacità di fare squadra e nel contempo aggressività nei confronti degli appartenenti ad altri gruppi. Quella femminile è invece individuale (fra singoli membri del gruppo). Infatti, la raccolta, i cui frutti restavano nella disponibilità delle singole raccoglitrici, alimentava la competitività fra di loro. Competitività che inoltre era stimolata dalla gara per ottenere l'attenzione o i favori dei soggetti maschi alfa: lo strumento è l'arte della seduzione, un'arma tipicamente femminile di cui le donne si avvalgono in molte circostanze e per diversi scopi.

Tradotto nella vita attuale, le donne (a differenza di quanto diffusamente asserito) non sarebbero più idonee degli uomini nel creare armonia e collaborazione nella vita sociale. Certamente sono più empatiche, il che potrebbe bilanciare quella maggiore competitività ancestrale che le conduce a una più marcata conflittualità (in particolare fra donne) nel gruppo di convivenza. Pertanto, sarebbe prudente riconoscere, su questo terreno, pari attitudini ai due generi piuttosto che rivendicare strumentalmente primati per l’uno o per l’altro.

Tutto ciò, viene detto, non riguarda più la società odierna: la forza fisica e le differenti capacità di maschi e femmine ad essa connesse non sono più fattori limitanti poiché le tecnologie hanno affrancato gli esseri umani dai vincoli imposti in passato. È vero, ma non ci si libera con facilità da condizionamenti, anche di ordine etologico, che hanno contrassegnato l’esistenza degli esseri umani per decine di migliaia di anni.

Comunque, questa rappresentazione viene respinta dai liberali di impronta radicale. Per loro, la mente, alla nascita, è una tabula rasa: nell’adulto, qualsiasi nozione, abitudine o associazione presente in essa si basa esclusivamente sull’esperienza e sulla trasmissione culturale. Ma è una visione contraddetta dalla ricerca biologica. Enrico Mugnaini, neuroscienziato dell'università di Boston, in occasione della laurea honoris causa in medicina e chirurgia conferitagli dall'Università di Torino, ci ha detto che “l’umanità, come specie biologica, si è evoluta attraverso milioni di anni, acquistando una intelligenza senza precedenti, e, tuttavia, è ancora guidata da complesse emozioni ereditarie e canali di apprendimento prestabiliti”.

Certamente la cultura, con la capacità di adattarsi alle varie situazioni ambientali e storiche, incide in modo prevalente sui nostri comportamenti, e può imporsi su istinti e impulsi naturali. Tuttavia fino a dove si potrà spingere in contrasto con quel complesso bagaglio ereditario che ancora ci condiziona? Secondo Konrad Lorenz solo fino ad un certo punto, oltre il quale pesanti ricadute sociali costringeranno a ripensamenti.

Oggi, tuttavia, viviamo in un'era in cui il moderno uomo tecnologico si dispone a sottomettere totalmente il mondo naturale e a prendere in mano la propria evoluzione agendo direttamente sul genoma. Forse, su questo sentiero sconosciuto, si potrà andare lontano. Non ne conosciamo gli esiti. Non si può escludere che potranno assomigliare a quelli immaginati da Aldous Huxley nel Mondo nuovo. È questo un mondo in cui (fra le molte altre cose) la tecnologia ha totalmente rimpiazzato gli esseri umani dai compiti riproduttivi: fecondazione in vitro, ricorso a incubatori in sostituzione della gravidanza, allattamento artificiale, allevamento e crescita dei bambini al di fuori di ogni istituzione familiare.

I primi passi in questa direzione si stanno già facendo: gli uteri in affitto, la fecondazione eterologa, prossimamente la clonazione riproduttiva, tutte operazioni lesive della dignità dell’essere umano e foriere di una sua artificializzazione non compatibile con l’umanesimo. È bene esserne consapevoli.


4 Commenti

  1. Trovo convincente il quadro evolutivo, e in particolare le conclusioni espresse da Ladetto.
    Anche in questo caso ci troviamo di fronte a problemi posti dall’iperculturalità di il moderno HOMO DEUS (delirantemente individualista, con tutti i problemi che ciò comporta in termini, prima di ogni altra cosa, di uso del buon senso armonizzatorio applicato a realtà che talvolta sono tragiche, anche in termini di rapporto, che nella storia di ogni tempo e ogni cultura sono sempre esistiti, e sono sempre stati in qualche modo problematici, tra un’ordinata socialità, biologicamente compatibile, e i casi estremi di identità sessuale), sostanzialmente visto come un autoredentore, attraverso la tecnica, dai limiti di una natura matrigna dai cui vincoli, poco rigorosamente razionali, ci si vuole liberare ad ogni costo.
    Temo che tale uomo autoredentore, che si appoggia, come ci ricorda Ladetto, sul presupposto che i vincoli biologici non sono una componente essenziale del genere umano, si illuda che tali vincoli siano sempre e comunque superabili senza finire col creare problemi ancor più complessi di quelli che si vorrebbero risolvere.
    La conclusione è che, a tal proposito, si finiscono con l’invocare costruzioni culturali astratte che intenderebbero abbattere proprio quanto evidenziato da ENRICO MUGNAINI come dato imprescindibile, e cioè che “l’umanità, come specie biologica, si è evoluta attraverso milioni di anni, acquistando un’intelligenza senza precedenti, e, tuttavia, è ancora guidata da complesse emozioni ereditarie e canali di apprendimento prestabiliti.”

  2. Concordo con Ladetto ed Accorinti.
    Vi racconto la vicenda di una cara amica d’infanzia.
    Biologa di fama alla Columbia Università, una
    ventina d’anni fa sposò una collega inglese.
    Vollero un figlio e lo ottennero grazie al seme
    di un donatore sconosciuto.
    Il caso le “premiò” con due gemelle.
    Splendide bambine, adolescenti problematiche.
    L’assenza di un padre sta creando una sofferenza
    nelle ragazze.
    Le mamme non vogliono riconoscerlo, anzi a dirlo
    si viene accusati di essere politicamente
    scorretti….
    La natura si prende sempre la sua rivincita.

  3. L’umanità o forse meno prosaicamente la specie Homo Sapiens si è evoluta nel corso del tempo, modificando il proprio comportamento ed anche la propria fisiologia in funzione di un meccanismo sofisticato di “invenzione” ossia di progressive perdite di sovranità sul proprio corpo a favore di un potenziamento di protesi extracorporee sia inanimate (strumenti) si animate (altre specie e persino la propria stessa specie).
    La riflessione che credo valga la pena affrontare è se questo sia intelligenza o non piuttosto abilità evolutiva “criminale”, dove criminale è inteso nel senso di Carlo Cipolla cioè di azione che porta vantaggio all’agente con danno (più o meno grave e più o meno compreso) per altri.
    A leggere con distacco la storia evolutiva e tutto il costrutto culturale – non ultimo il linguaggio e la politica con questo (artefatti significativi per dirla con Paolo Benanti) – trovare intelligenza ossia “umile ambizione” di portare vantaggio al soggetto agente e vantaggio alla restante parte della realtà, tutta e differente (!) dal soggetto agente, è a mio parere in questo momento molto molto difficile. Alcuni dei pochi soggetti, delle poche voci, che possiamo riconoscere muoversi in questo senso, sono Papa Francesco e Greta Thumberg, ma anche loro sono per così dire “prudentemente auto trattenuti da esigenze di real politik” (neppure i loro fan più sfegatati sono disposti a rinunciare ad una visione comunque incentrata sui “sapiens” o comunque implicitamente antropocentrica).
    Il paradosso di questo tempo è la complessità della facilitazione, confusa spesso con la difficoltà della semplificazione. Intendiamoci, le pieghe evolutive non si possono togliere, e non sono necessariamente una sola piega. Per tornare all’esempio della riproduzione: non ci sono solo organismi maschili e femminili, possono non esserlo per sempre, possono essere organismi che hanno in se entrambe le funzioni evolutive, può essere che la riproduzione di qualche specie dipenda da altre specie, ecc..
    In questa fase evolutiva forse siamo chiamati ad accrescere la consapevolezza della multi dipendenza (è un primo passo), ma forse dovremmo dire siamo chiamati ad accrescere semplicemente la consapevolezza!
    Da qui la dimensione politica della relazione con l’altro da me, comunque intendiamo l’altro (neutro rispetto al genere…), può solo migliorare e diventare veramente “intelligente” nel senso sopradetto. Se invece ci ostiniamo a cercare in schemi e modelli che vengono dal “prima” dalla “confort zone” dell’esperito con i sensi e con la capacità intellettuale siamo condannati a ripetere e forse anche ad aggravare errori e orrori passati (magari in nuove vesti).
    Come vuol dire allora accettare la “complessità della facilitazione”? vuol dire reggere lo squilibrio che si genera facendo libere veramente le persone e rendendole capaci di relazionarsi con il cosmo; in una parola emancipandole; ecco la sfida politica che passa da una attività che non possiamo dire essere “scuola” nel senso tradizionale, e nemmeno semplicemente “maieutica”, ma un insieme di officina, laboratorio e comunità-relazione di “vite” (non tutte della stessa specie), nuovo, inedito, da inventare, insomma un’altra sfida… e niente di prestabilito.

  4. E’ molto simile al delirio narcisistico della c.d. cancel culture che vorrebbe frettolosamente giudicare o mutilare la storia lasciando campo libero soltanto a un presente svincolato da ogni legame col passato: l’uomo contemporaneo, con la sua mentalità e la sua consapevolezza è considerato l’equivalente di uno stadio finalmente adulto della storia contrapposto alla condizione di “minorità” di chi ci ha preceduti (donde tra l’altro il disprezzo verso il sentimento religioso). E’ una forma di estremismo neoilluminista manicheo e fanatico che da un lato non tiene conto che il nostro stadio evolutivo è il prodotto di laboriosi e lenti processi storici e dall’altro non contempla la possibilità che il nostro “presente” sarà percepito come il “passato” da chi ci seguirà fra 50, 100, 1000 anni ed è null’altro che un passaggio nell’inesauribile percorso evolutivo dell’umanità; è in fondo una riedizione del mito della fine della storia che ha variamente suggestionato marxisti e neoliberisti. Di più. questa presunzione biologica (o antibiologica come ha mostrato Ladetto) e (anti)storica è fenomeno tipicamente occidentale: espressione di una sorta di suprematismo globalista che non tiene in considerazione i modelli “altri” di civiltà e di cultura che invece costituiscono sistemi autosufficienti come aveva ben intuito Spengler nei lontani anni ’30.

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