Il venir meno delle regole (spiegato dagli etologi)



Giuseppe Ladetto    25 Agosto 2021       3

Di fronte ad episodi di cronaca nei quali non sembrano più esserci regole di comportamento riconosciute, sentiamo i commenti più vari e spiegazioni talora molto settoriali che mai vanno al cuore della questione. Propongo alcune considerazioni, riconducibili a scritti di etologi, che ci possono aiutare a comprenderne le cause.

Goethe diceva “Settimana faticosa, festa lieta”. Lo riporta Konrad Lorenz per evidenziare che le cose migliori che ci danno piacere, soddisfazione e gioia devono essere spesso ottenute con fatica e, se molto agognate, esponendosi talora a sofferenza e pericolo. Ogni obiettivo desiderato impone una costrizione su se stessi. Oggi, tuttavia, si è persa memoria di questa relazione tra piacere-gioia-soddisfazione e fatica-disagio-costrizione. La prosperità materiale, il mito del progresso tecnologico, lo Stato-provvidenza, la rivendicazione di sempre più diritti e il rifiuto dei doveri hanno indotto a credere che piacere, soddisfazione e gioie siano dovuti e non oggetto di conquista. Infatti, non mancano quanti pretendono di veder soddisfatti i propri desideri senza aver fatto nulla per realizzarli, e reagiscono con violenza di fronte agli insuccessi. In ogni caso, aggiunge Lorenz, l'ottenimento troppo facile degli obbiettivi agognati ha affievolito quei sentimenti che suscitava il loro faticoso raggiungimento. In tal modo, si è spento il desiderio di essi, e di conseguenza ne sono scaturite noia ed apatia. In particolare, il piacere diluito dall'abitudine richiede una sempre maggiore offerta e nuove esperienze sempre più estreme, fino a degenerare nella perversione.

Eppure, c'è chi ritiene (come il sociologo Domenico De Masi) che il benessere e la felicità saranno pienamente raggiunti solo quando lo sviluppo tecnologico ci avrà liberati dalla fatica, dai vincoli, dalle responsabilità quotidiane e dalla sofferenza. A negare un tale radioso futuro, e a giustificare la fatica, i disagi e il dolore, sarebbe, a suo dire, in particolare un certo pensiero cristiano. Ma Lao Tze (che cristiano non era, essendo vissuto nel V secolo a. C.), ad un discepolo che gli aveva chiesto come ottenere la felicità, rispose: “Spacca la legna e tira su l'acqua dal pozzo”. Con queste parole indicava la felicità nell'assolvimento dei faticosi compiti quotidiani che assicurano i mezzi di vita a sé e ai propri familiari o ai membri della propria comunità. Aggiungo che fare bene il proprio lavoro può essere motivo di grande soddisfazione e un modo fondamentale per realizzarsi. Ha scritto Primo Levi (in La chiave a stella) che “amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra”.

Nel corso dei secoli, osserva Lorenz, si diventava adulti allorché si comprendeva che la vita non è solamente un godimento, ma anche una costrizione. Da quando ci sono sempre meno costrizioni, vi sono in giro sempre meno adulti. Sul piano generale, chi resta in uno stadio di infantilismo cercando di godere delle attenzioni rivolte dagli adulti a un bambino (che non è più) senza dare nulla in contraccambio diventa un parassita della società. Occorre però tenere presente che le caratteristiche infantili e giovanili sono essenziali al progresso della nostra specie: curiosità, attitudine esplorativa e al gioco (che non ha fini utilitaristici), una certa impertinenza contestatrice sono elementi che spingono a cercare nuove strade e possibilità. Tuttavia, con la maturità, tali caratteristiche si attenuano perché, se si eccede con esse, possono diventare pericolose, mal conciliandosi con la capacità di valutare i fatti in modo equilibrato e con l'adozione di comportamenti responsabili.

Un certo tipo di contestazione quando, come spesso accade, presenta caratteristiche di infantilismo è in parte imputabile a quegli adulti che non sono stati all'altezza del ruolo di genitori o educatori: molti di loro, troppo spesso, per timore di apparire autoritari, non sanno più essere autorevoli. Pertanto, il ragazzo allevato in un gruppo familiare o scolastico in cui non esistono gerarchie non ha modelli adulti in cui identificarsi. Cerca, pertanto, modelli tra i coetanei, guardando in particolare a chi ha più notorietà. Nascono così gruppi di giovani omologati e sintonizzati su quanto detta l'ultima moda in corso. Ne consegue una rottura generazionale: la gioventù si ribella e reagisce contro la generazione più vecchia, avvertita come estranea, comportandosi come una tribù che agisce contro un'altra straniera. Si verifica una solidarietà orizzontale, a spese di quella verticale fra generazioni, che produce una disorganizzazione sociale, una situazione che può in parte spiegare molti degli episodi di cronaca di cui si parla. Dagli anni Settanta, quando Lorenz fece queste considerazioni, il fenomeno descritto ha continuare a procedere. È compito preminente degli adulti cercare di porvi riparo, riconquistando il ruolo che loro compete con le connesse responsabilità.

La nostra è una specie sociale: solo la cooperazione all'interno del gruppo di appartenenza le ha consentito di sopravvivere e di evolvere. Essere una specie sociale implica che, all'interno della società (piccola o grande) in cui si vive, ci siano, tra i suoi membri, fiducia, solidarietà e mutuo soccorso. Quando alcuni soggetti fanno i furbi, cioè beneficiano dei vantaggi della collaborazione, ma si sottraggono agli impegni che ne derivano, risultano avvantaggiati rispetto agli altri. Se nulla intervenisse ad impedire loro tale comportamento, i furbi, nel tempo, aumenterebbero di numero (per imitazione o per selezione naturale): così quella società si indebolirebbe e finirebbe per soccombere. La natura, ad impedire ciò, ha selezionato, nel processo evolutivo, sentimenti ed emozioni (un senso della giustizia) che spingono i membri della società a punire con misure adeguate e severe, o a cacciare via, i furbi. Anche le norme culturali si sono orientate in tale direzione. L'essere umano infatti non è solo istinto, né sola cultura, ne sola razionalità, ma è l'insieme di tali componenti, essendo materia e spirito. In tempi lontani, assai prima che il capotribù, il monarca o altro potere intervenisse a tal fine con la legge, è stata la reazione istintiva dei membri della comunità a sanzionare tali negativi comportamenti impedendone la diffusione.

Così sono andate le cose, più o meno, fino a ieri, poi con la modernità ultima, si è imposto il “primato dei diritti individuali” in rottura con quel primato dei diritti collettivi che aveva caratterizzato la storia del genere umano. Si è così affermato un individualismo assoluto che si spinge fino a negare la società stessa. Nella nuova ottica, è ritenuta reazionaria ogni forma di controllo esercitato dall'insieme delle persone componenti una comunità. Non è quindi accettabile che la gente (singoli o gruppi, o comunità) esprima giudizi sui comportamenti delle persone. Non ci sono, viene detto, limiti e regole da rispettare al di là di quanto la legge espressamente vieta. Oggi, di fronte a un qualsivoglia cattivo comportamento (parcheggiare in seconda fila o non pagare il biglietto sul tram, fino ad episodi di teppismo), quanti esprimessero critiche in merito vengono considerati più negativamente di coloro che compiono tali azioni. Viene così meno ogni forma di censura verso comportamenti oggettivamente irresponsabili: ne consegue la crescente diffusione di quegli episodi di cui si occupa la cronaca. Infatti, dovrebbe essere ben chiaro che l'intervento delle autorità incaricate di far rispettare la legge in caso di reati è solo un ultimo argine, inevitabilmente inadeguato: esso infatti non può reggere se mancano a monte reazioni da parte dei membri della comunità, tese a biasimare quei comportamenti antisociali messi in atto dai furbi, dai parassiti e dai prepotenti. In assenza di ciò, vediamo che diventa difficile arginarli, perfino quando costituiscono reati, sia pure minori o lievi.

La pandemia di Covid-19 ha provocato lutti e danni economici con pesanti ricadute di ordine sociale, ma ci può dare qualche insegnamento. Dobbiamo infatti cercare di comprendere, analizzando quanto è accaduto e sta accadendo nei diversi Paesi colpiti dal morbo, perché alcuni di questi (fra i quali quelli occidentali) abbiano pagato un prezzo altissimo, mentre altri (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Singapore) si siano condotti abbastanza bene, almeno fino ad ora.

Posti di fronte a questa realtà, i media occidentali hanno subito messo in campo l’aspetto istituzionale: le democrazie incontrano limitazioni invalicabili nel ridurre, sia pure temporaneamente, le libertà personali, mentre le dittature asiatiche possono ignorare tali limiti. Si dimentica però che la Corea del Sud non è una dittatura ed anche Taiwan e Singapore non possono essere propriamente qualificate tali. Inoltre, le misure adottate dai Paesi citati sono state tra loro molto diverse, e altrettanto è avvenuto in Occidente dove, alle chiusure promosse dalla più parte dei Paesi, si sono contrapposti l’approccio “aperturista” di Svezia e Brasile e quello “ondivago” di Regno Unito e USA. Che cosa allora ha fatto la differenza tra Oriente ed Occidente?

In un articolo a firma Archimede Collaioli, ho trovato questa risposta: “Varie sono le spiegazioni possibili, ma alla fine il senso ultimo di esse può essere riassunto nella parola serietà. Gli orientali hanno preso sul serio quello che è stato loro detto, e con serietà vi si sono adeguati. Gli occidentali no”.

Faccio mia questa risposta cercando di definire meglio il significato di “serietà”. Non si è trattato solo di un adeguamento da parte degli asiatici alle disposizioni date dai governi, e alla capacità di questi ultimi di farsi obbedire. C’è soprattutto la permanenza nella popolazione di una coesione e di un rispetto delle regole che si traduce in disciplina e forme di controllo sociale. Ed è questo aspetto a venir rigettato in Occidente in nome di una malintesa libertà (fare quanto si desidera indipendentemente dalle ricadute sulla società) e di un diritto alla privacy dilatato al di fuori di ogni logica. Negli orientali (che pure hanno vissuto i processi di omologazione connessi alla globalizzazione) permangono archetipi mentali profondamente radicati, forse risalenti a quel confucianesimo che ha improntato di sé i cinesi (malgrado Mao abbia fatto di tutto per sradicarlo) e ha influenzato anche la mentalità coreana.


3 Commenti

  1. L’analisi di Giuseppe Ladetto è perfetta e lucidamente proposta.
    Come si fa a trasformarla in proposta politica ?

  2. Condivido completamente la vostra analisi, ma chiedo: come si può concretamente avviare questa inversione di rotta? Ho 67 anni, da almeno 40 sento considerazioni al riguardo ma tutte le buone “teorie” rimangono tali. Mi piacerebbe avere un dialogo più approfondito.

  3. Egr. G. Ladetto,
    questa sua bella seppur breve analisi mi ha ricordato un’affermazione di Auguste Comte: la scienza libererà l’uomo da ogni schiavitù e darà luogo ad una società perfetta come mai si è visto nella storio umana. Come tutti sanno infatti alla scientismo sono conseguite due guerre mondiali, due stragi e nessuna liberazione dalla schiavitù.

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