L’Italia, una ruota quadrata



Francesco Provinciali    9 Dicembre 2020       0

Al termine di un anno monopolizzato dalla crisi pandemica che ha sconvolto il pianeta, il 54° Rapporto del Censis offre – come è tradizione dell’Istituto fondato da Giuseppe De Rita – alcune chiavi di lettura delle derive che hanno caratterizzato la società italiana e lo fa con l’abilità e la maestria alle quali ci ha abituato, avendo accompagnato lo sviluppo del Paese dal secondo dopoguerra ad oggi con fermo-immagini e scandagli interpretativi sempre originali e connotativi, come attraverso una lente di ingrandimento che ci aiuta a conoscere la realtà del presente, le sue scaturigini occasionali e motivazionali e le proiezioni di una dinamica evolutiva che conserva i tratti di una spontanea e tenace continuità pur nella discontinuità degli eventi che accompagnano la cronaca e la Storia.

Possiamo dire che era particolarmente atteso questo 54° Rapporto per comprendere, riassumere e possibilmente spiegare e ricomporre in una visione d’insieme un anno decisamente inatteso, drammaticamente sorprendente, tangibilmente devastante rispetto ai nostri contesti di vita: se l’incipit è stata la diffusione repentina e pervasiva di un virus malefico, le conseguente si sono riversate e declinate sul piano economico, del lavoro, delle famiglie, della scuola, del sistema sanitario, della fruizione culturale, del tempo libero, in poche parole di tutte le nostre abitudini di vita, che ne sono uscite profondamente alterate, con turbamenti emotivi e stati d’animo pervasi da profondo sconcerto, da angoscia e paura.

L’incipit delle considerazioni generali del Rapporto vale un’icona descrittiva: “L’avanzare della storia trova, a volte, curve drammatiche e inaspettate che mutano radicalmente ambienti e paesaggi del vivere, individuale e collettivo. Cambiamenti che provocano un sentimento di estraniazione dalla realtà, spossessano dalla responsabilità di stare dentro le cose e comprenderne dinamiche, effetti, strategie di reazione. La pandemia globale di quest’anno è uno di questi improvvisi e imprevisti cambiamenti. È arrivata silenziosa e subdola”. Anche nella cosiddetta seconda fase in cui la società impreparata è stata sopraffatta dalla “sorpresa della ripresa pandemica”. L’attesa si è trasformata in disorientamento, la semplificazione delle soluzioni in emergenza è diventata sottovalutazione dei problemi, il contagio della paura rischia di mutare in rabbia. Abbiamo guardato la realtà con “occhi di talpa”, disorientati nella gestione del presente, incapaci di una visione lungimirante, immaturi nell’affidarsi a priori all’evoluzione naturale e auspicabilmente positiva delle cose, pervasi dall’ansia anticipatoria e fiduciosi nell’esito risolutivo delle fasi critiche e apicali, figli di una concezione dello sviluppo necessariamente a buon fine, affidato nelle mani dello spontaneismo e del vitalismo piuttosto che in quelle rassicuranti della sagacia, della conoscenza, della competenza che guidano verso la capacità di gestire gli eventi con oculata programmazione.

Così, nell’anno della paura nera l’epidemia ha squarciato il velo che copre le nostre strutturali vulnerabilità.

Evocando l’assenza di un Churchill a far da guida, il Rapporto evidenza impietosamente come per carenza di senso civico e di macro-visione, sia stata la tendenza individualista la migliore alleata del virus.

La parcellizzazione, direi l’incedere insicuro e frammentato dei provvedimenti dei decisori politici, a colpi di DPCM ha come paralizzato la vita del Paese: incapaci di prevedere, impreparati a programmare, divisi tra centralismo decisionale e decentramento autarchico, inclini a una pervicace burocratizzazione dei provvedimenti da assumere, essi hanno pensato di gestire gli effetti della crisi con una visione rapsodica e minimalista, persino minuziosamente parcellizzata: la logica delle provvidenze a pioggia non ha risolto i problemi strutturali di una società che si accontenta del “meglio sudditi che vittime”, versione 4.0 del vecchio adagio “o Franza o Spagna purché se magna”. Scegliere di lasciare in latenza le scuole chiuse – il più grande vulnus ad effetto ritardato che il Paese abbia prodotto – affidandosi ad una DAD (didattica a distanza) non strutturata e non strutturale, inserita in un sistema scolastico decentrato ma a traino culturale tendenzialmente tradizionalista, ha avuto la parvenza di un bubbone in un corpo estraneo. Sceglierlo occupandosi di riaprire le discoteche e lasciar affollare le spiagge, di chiudere un occhio sugli assembramenti e le movide serali ha avuto le sembianze di una leggerezza imperdonabile.

Per non parlare delle monografie sulle uscite e gli spostamenti affidate a norme severe e applicate con autocertificazioni, soggette al vaglio sanzionatorio discrezionale dei controllori.

Tutto ostinatamente e dettagliatamene previsto e pur cangiante, alternando giorni ed ore come se il virus si diffondesse con i paradigmi della burocrazia. Emblematica la questione dell’anticipo della Messa di mezzanotte. In un quadro di incertezza emotiva e sistemica terrorizzante si è scelta inoltre ancora una volta la via dei bonus senza controllo, senza una visione olistica e di medio-lungo termine. Contentini a tempo che si trasformano sempre in bocconi avvelenati, uno spendacciare senza produttività.

Poteva accadere diversamente? Alcuni sbandierano il modello Italia come un esempio da imitare, altri lo demonizzano come il peggiore dei mali. Il fatto è che questo clima di incertezza che diventa timore, poi paura, ingenerando rabbia e provocando diffidenze fino ad ipotizzare la delazione come strumento di controllo sociale, germina in un tessuto socio economico in forte crisi, dove il lavoro a poco a poco scompare mentre cresce il timore del domani, i corpi intermedi spariscono, cresce la povertà e ingloba nuovi target, il ceto medio si dissolve e si polarizzano i dissensi e il contenzioso centro-periferia. Un Paese a macchia di leopardo già descritto in passato dal Censis, che ora assume i colori delle aree a rischio e le sfumature intermedie come ulteriore elemento di divisione e frammentazione.

E poi la retorica della parola come ambiziosa speranza di rassicurazione emotiva della gente: ma sempre in termini ipotetico-deduttivi che generano sfiducia, disaffezione, rancore, logiche corporative.

Temi presenti da almeno 10 anni in qua nei Rapporti Censis precedenti. Quando la politica verticalizza i rapporti con i cittadini, in nome della sicurezza e delle tutele sanitarie senza un corrispettivo inquadramento socio-economico dei problemi si verifica uno sfaldamento nel tessuto della coesione sociale e una forte pulsione di soggettività ad esser lontane tra loro. E così il 57,8% degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, lasciando al Governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale; il 38,5% è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni. Il 77,1% degli italiani chiede pene severissime per chi non indossa le mascherine di protezione delle vie respiratorie, non rispetta il distanziamento sociale o i divieti di assembramento, il 76,9% è fermamente convinto che chi ha sbagliato nell’emergenza deve pagare per gli errori commessi, il 56,6% vuole addirittura il carcere per i contagiati che non rispettano rigorosamente le regole della quarantena e dell’isolamento, e così minacciano la salute degli altri; il 31,2% non vuole che vengano curati (o vuole che vengano curati solo dopo, in coda agli altri) coloro che, a causa dei loro comportamenti irresponsabili o irregolari, hanno provocato la propria malattia mentre il 49,3% dei giovani vuole che gli anziani siano curati dopo di loro. Quasi il 40% degli italiani (il 41,7% dei più giovani) oggi afferma che, dopo il Covid-19, avviare un’impresa, aprire un negozio o uno studio professionale è un azzardo, perché i rischi sono troppo alti, e solo il 13% lo considera ancora una opportunità. E mentre cresce il valore dei depositi bancari dal 32,9% nel giugno 2019 al 34,5% nel giugno 2020, il 75,4% degli italiani valuta come insufficienti o giunti in ritardo gli aiuti dello Stato. Un dato confermato dal Rapporto e rilevato “a pelle” nella realtà è che gli studenti – che immaginiamo solitamente immersi nel web e nell’uso delle nuove tecnologie – riscoprono il valore dello stare insieme ai compagni (65%) , ai professori (38,5%), per un ritorno alla didattica in presenza (45,7%).

Un altro dato rilevato è l’attenuazione nella visione europeista delle soluzioni alla pandemia, nonostante le pesanti iniezioni di liquidità promesse dal Recovery Fund: Solo il 28% degli italiani nutre fiducia nell’UE, a fronte di una media europea del 43%: ciò non ha però intaccato la visione prospettica delle istituzioni comunitarie, positiva dal 31% (UE 40%) e neutra dal 39% (UE 40%). Seppure di misura, rimane ancora minoritaria la quota di chi ne ha una percezione negativa, arrestandosi al 29% (UE 19%).

Le gente mantiene consapevolezza circa la centralità della politica, pur esprimendo una sfiducia montante ma senza usare la forza di un atteggiamento di ribellione, facendo proprio il principio secondo cui le rivoluzioni si raccomandano agli uomini non per quello che hanno distrutto ma per quello che hanno conservato.

Abituati al paradosso della quadratura del cerchio siamo indotti dal Censis a considerarne un correlato speculare: “il sistema-Italia è una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica, suddividendo ogni rotazione in quattro unità, con un disumano sforzo per ogni quarto di giro compiuto, tra pesanti tonfi e tentennamenti”. E ciò riguarda – per usare un’espressione cara a De Rita – non solo il ‘corpaccione sociale’ ma sempre più le singole soggettività.


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