Sul quotidiano “Il Messaggero” è comparso un editoriale dell'unico leader vincente del centrosinistra nella Seconda Repubblica del bipolarismo, Romano Prodi. La sua opinione sui fatti politici è sempre di interesse – specie per i cattolici democratici – e questa volta si esprime sul referendum per il taglio dei parlamentari con ragioni che lo portano al No.
Sto in questi giorni cercando di capire perché ogni persona con cui mi trovo a parlare mostra un crescente disorientamento nei confronti del referendum per il quale siamo chiamati a votare nel prossimo mese di settembre. Il sentimento del referendum come rivolta contro la classe dirigente si è come assopito, addormentato dal caldo estivo e messo in un angolo dai ben più urgenti problemi legati al Covid e alle sue ancora non misurate conseguenze. La modesta diminuzione dei costi (0,007% della spesa pubblica italiana) come effetto del minore numero dei parlamentari non viene quasi più presa in considerazione: essa rimane sepolta tra le paurose cifre della finanziaria e la nuova dimensione degli interventi europei.
Il centro dell’attenzione si sta progressivamente spostando nella più ragionevole direzione di quale sia la migliore organizzazione del Parlamento per garantire ad esso efficienza e rispetto della Costituzione. Ed è proprio a questo punto che l’elettore si disorienta di fronte alle raffinate motivazioni dei politici o degli studiosi che sostengono le più svariate tesi. Si tratta di un disorientamento del tutto giustificato, perché il normale cittadino intuisce che il numero dei parlamentari non è il problema principale del crescente distacco fra il Paese e il Parlamento.
Il dimagrimento del Parlamento può essere solo la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle nostre istituzioni. Il vero problema non sta infatti nel numero, ma nel modo in cui i parlamentari vengono eletti. Anche senza elaborare profonde analisi teoriche, l’elettore si è reso progressivamente conto che deputati e senatori non sono stati eletti, ma sostanzialmente nominati dai partiti e, come tali, coerentemente si comportano.
Non avendo alcun necessario rapporto col territorio, non hanno ormai (salvo pochissime eccezioni) alcun legame organico con gli elettori, non mettono più in atto i periodici incontri con le diverse categorie o i diversi quartieri e paesi degli elettori e non hanno nemmeno un ufficio locale. Solo una minima parte degli elettori conosce il nome del parlamentare che, almeno in teoria, rappresenta il suo territorio. Semplicemente perché non lo rappresenta. Per il cittadino normale diventa quindi del tutto indifferente se sia meglio avere un deputato ogni novantamila o ogni centoquarantamila abitanti, o se sia davvero un danno che una regione sia rappresentata da un numero di senatori molto ridotto. Insomma, più ci si avvicina al referendum più esso viene ritenuto un residuo di impegni presi in passato, di vecchi slogan e di campagne folcloristiche accompagnate da immagini di grandi forbici e di poltrone sfregiate dalle forbici medesime.
Resta quindi difficile convincerci del fatto che la diminuzione del numero dei parlamentari sia il primo passo per portare i problemi del territorio al Parlamento e dal Parlamento al Governo. Dopo decenni di discussione andati a vuoto, nessuno più crede in una legge elettorale che si ponga questo obiettivo, anche perché il dibattito fra i partiti si orienta, quasi all’unanimità, verso l’adozione di un sistema proporzionale che mantenga sostanzialmente il diritto di nomina, mentre le dispute si concentrano sulla percentuale minima che un partito deve raggiungere per essere rappresentato in parlamento. Non è certo facile cambiare questa realtà. Ciò non di meno, almeno fino a che l’Italia rimane una Repubblica parlamentare, la qualità e l’autorevolezza dei membri del Parlamento rappresentano il pilastro fondamentale per il buon funzionamento delle nostre istituzioni.
A questo si dovrebbero ovviamente aggiungere le altre ben note riforme che ridefiniscano, ad esempio, le funzioni delle due Camere, i lavori delle commissioni, i rapporti con le Regioni e il modo di operare delle commissioni e i rapporti fra Parlamento e Governo. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo di rendere il Parlamento autorevole e responsabile verso i cittadini, occorre quindi fare ogni sforzo per orientarsi verso un sistema elettorale in cui i partiti, sui quali grava la responsabilità di indicare i candidati alle elezioni, siano spinti a scegliere persone che, per la loro autorevolezza e per la stima di cui godono, abbiano maggiore probabilità di essere votate dagli elettori del collegio con il quale dovranno mantenere rapporti continuativi per tutto il corso della legislatura.
Nel sistema elettorale in vigore dal 1994 i tre quarti dei parlamentari venivano eletti in questo modo, obbligando i partiti a scegliere persone capaci, per le proprie caratteristiche personali, di attrarre la fiducia degli elettori: una fiducia che doveva essere rinnovata nel tempo con la fatica quotidiana e con i contatti personali che sono il pilastro della democrazia.
Mi rendo conto di proporre cambiamenti che ben difficilmente potranno essere accettati e mi rendo altrettanto conto che i lettori, anche se la cosa è di scarsa importanza, hanno il diritto di chiedermi quale sarà il mio personale orientamento di voto nei confronti dell’imminente referendum.
Riconfermando la non primaria attenzione che vi attribuisco e pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese.
(Tratto da www.ilmessaggero.it)
Sto in questi giorni cercando di capire perché ogni persona con cui mi trovo a parlare mostra un crescente disorientamento nei confronti del referendum per il quale siamo chiamati a votare nel prossimo mese di settembre. Il sentimento del referendum come rivolta contro la classe dirigente si è come assopito, addormentato dal caldo estivo e messo in un angolo dai ben più urgenti problemi legati al Covid e alle sue ancora non misurate conseguenze. La modesta diminuzione dei costi (0,007% della spesa pubblica italiana) come effetto del minore numero dei parlamentari non viene quasi più presa in considerazione: essa rimane sepolta tra le paurose cifre della finanziaria e la nuova dimensione degli interventi europei.
Il centro dell’attenzione si sta progressivamente spostando nella più ragionevole direzione di quale sia la migliore organizzazione del Parlamento per garantire ad esso efficienza e rispetto della Costituzione. Ed è proprio a questo punto che l’elettore si disorienta di fronte alle raffinate motivazioni dei politici o degli studiosi che sostengono le più svariate tesi. Si tratta di un disorientamento del tutto giustificato, perché il normale cittadino intuisce che il numero dei parlamentari non è il problema principale del crescente distacco fra il Paese e il Parlamento.
Il dimagrimento del Parlamento può essere solo la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle nostre istituzioni. Il vero problema non sta infatti nel numero, ma nel modo in cui i parlamentari vengono eletti. Anche senza elaborare profonde analisi teoriche, l’elettore si è reso progressivamente conto che deputati e senatori non sono stati eletti, ma sostanzialmente nominati dai partiti e, come tali, coerentemente si comportano.
Non avendo alcun necessario rapporto col territorio, non hanno ormai (salvo pochissime eccezioni) alcun legame organico con gli elettori, non mettono più in atto i periodici incontri con le diverse categorie o i diversi quartieri e paesi degli elettori e non hanno nemmeno un ufficio locale. Solo una minima parte degli elettori conosce il nome del parlamentare che, almeno in teoria, rappresenta il suo territorio. Semplicemente perché non lo rappresenta. Per il cittadino normale diventa quindi del tutto indifferente se sia meglio avere un deputato ogni novantamila o ogni centoquarantamila abitanti, o se sia davvero un danno che una regione sia rappresentata da un numero di senatori molto ridotto. Insomma, più ci si avvicina al referendum più esso viene ritenuto un residuo di impegni presi in passato, di vecchi slogan e di campagne folcloristiche accompagnate da immagini di grandi forbici e di poltrone sfregiate dalle forbici medesime.
Resta quindi difficile convincerci del fatto che la diminuzione del numero dei parlamentari sia il primo passo per portare i problemi del territorio al Parlamento e dal Parlamento al Governo. Dopo decenni di discussione andati a vuoto, nessuno più crede in una legge elettorale che si ponga questo obiettivo, anche perché il dibattito fra i partiti si orienta, quasi all’unanimità, verso l’adozione di un sistema proporzionale che mantenga sostanzialmente il diritto di nomina, mentre le dispute si concentrano sulla percentuale minima che un partito deve raggiungere per essere rappresentato in parlamento. Non è certo facile cambiare questa realtà. Ciò non di meno, almeno fino a che l’Italia rimane una Repubblica parlamentare, la qualità e l’autorevolezza dei membri del Parlamento rappresentano il pilastro fondamentale per il buon funzionamento delle nostre istituzioni.
A questo si dovrebbero ovviamente aggiungere le altre ben note riforme che ridefiniscano, ad esempio, le funzioni delle due Camere, i lavori delle commissioni, i rapporti con le Regioni e il modo di operare delle commissioni e i rapporti fra Parlamento e Governo. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo di rendere il Parlamento autorevole e responsabile verso i cittadini, occorre quindi fare ogni sforzo per orientarsi verso un sistema elettorale in cui i partiti, sui quali grava la responsabilità di indicare i candidati alle elezioni, siano spinti a scegliere persone che, per la loro autorevolezza e per la stima di cui godono, abbiano maggiore probabilità di essere votate dagli elettori del collegio con il quale dovranno mantenere rapporti continuativi per tutto il corso della legislatura.
Nel sistema elettorale in vigore dal 1994 i tre quarti dei parlamentari venivano eletti in questo modo, obbligando i partiti a scegliere persone capaci, per le proprie caratteristiche personali, di attrarre la fiducia degli elettori: una fiducia che doveva essere rinnovata nel tempo con la fatica quotidiana e con i contatti personali che sono il pilastro della democrazia.
Mi rendo conto di proporre cambiamenti che ben difficilmente potranno essere accettati e mi rendo altrettanto conto che i lettori, anche se la cosa è di scarsa importanza, hanno il diritto di chiedermi quale sarà il mio personale orientamento di voto nei confronti dell’imminente referendum.
Riconfermando la non primaria attenzione che vi attribuisco e pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese.
(Tratto da www.ilmessaggero.it)
Di primo impulso mi verrebbe da dire che io la penso come Prodi, ma preferisco pensare che Prodi la pensa come me.