Anch’io come molti amici, fra i quali Guido Bodrato, voterò NO al prossimo referendum costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari.
La proposta di riforma costituzionale prevede la riduzione da 630 deputati a 400 e dei senatori da 315 a 200 con una riduzione, per ciascuno dei due rami del Parlamento, pari – in termini percentuali – al 36,5 per cento degli attuali componenti elettivi.
A seguito della modifica costituzionale muta dunque il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto. Per la Camera dei deputati tale rapporto aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce, a sua volta, da 188.424 a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat).
Oggi l’Italia esprime all’incirca (e con arrotondamenti) 1 deputato ogni 100.000 abitanti, la Francia 0,9, la Germania 0,9, il Regno Unito 1,0 e la Spagna 0,8. Con la riforma l’Italia si posiziona a quota 0,7. La più bassa rappresentatività in Europa su tutti i Paesi membri, nessuno dei quali sente la necessità di intervenire su questa materia.
La riduzione del numero di parlamentari con l’attuale legge elettorale implica tra l’altro una forte spinta maggioritaria che in alcune situazioni del Senato, alla luce di un’elezione su base regionale, giunge a promuovere l’affermazione del partito unico. Quindi il calo di rappresentatività si accompagna alla forte riduzione del pluralismo.
Se il correttivo fosse l’aumento del territorio dei collegi si arriverebbe a grandezze la cui copertura richiederebbe la disponibilità per il candidato di ingenti risorse economiche, comunque superiori alle attuali, con una agibilità elettorale riservata solo ai portatori di interessi forti che imporrebbero una spinta neo-corporativa o lobbistica all’ordine costituzionale. Si tratta di una deformazione della rappresentanza simile a quella indotta dal sistema elettorale per il Parlamento Europeo, molto costoso per i candidati, i cui effetti già oggi si possono misurare nella distanza emotiva fra i cittadini e le rappresentanze europee.
L’indebolimento delle istituzioni democratiche non è neanche compensato da vantaggi economici. La riduzione dei costi indotti dalla riforma (davvero modesto: si dice 500 milioni a legislatura, in realtà meno di 300) avrebbe ben potuto realizzarsi con una serie più bilanciata di interventi che avrebbero potuto riguardare in misura più limitata la riduzione del numero dei parlamentari e in misura più sostenuta il complessivo funzionamento delle Camere e l’insieme dei benefici di cui gode il sistema bicamerale con riguardo non solo a quelli dei parlamentari, ma anche a quelli dell’apparato burocratico.
Si è, invece, preferito inseguire il malessere sociale e attaccare direttamente gli organi costituzionali più importanti del nostro ordinamento, con una deriva tendenzialmente eversiva di cui non siamo oggi in grado di valutare i limiti, ma di cui siamo in grado di osservare alcune evidenze: la prevalenza dell’economia e della tecnica sulla politica, la sostituzione della magistratura nei compiti propri del legislatore, il prevalere del potere centrale (nazionale e regionale) sulle autonomie locali e le formazioni sociali e altro ancora.
Le leggi di riforma (in particolare elettorale) che hanno riguardato la politica in gran parte hanno portato a un indebolimento della rappresentanza e della partecipazione e alla concentrazione del potere. La stessa scelta della preferenza unica a tutti i livelli elettivi, pur nelle ragioni che l’hanno ispirata, ha favorito una personalizzazione del potere politico. Questa riforma va nella stessa direzione.
Voglio invitare poi agli amici che (come me) hanno creduto nella riforma costituzionale promossa dal Governo Renzi a non sentirsi chiamati a un dovere di coerenza. In quel caso i deputati venivano mantenuti nel numero attuale di 630 e si provvedeva a raggiungere l’obiettivo di una maggior efficienza (anche economica) dell’ordinamento costituzione correggendo il cosiddetto bicameralismo perfetto, ormai datato nelle sue ragioni storiche e politiche, istituendo un Senato delle Autonomie, formato da 100 rappresentanti già membri dei consigli regionali e in parte comunali ed eletti in secondo grado. Può non piacere, ma è sicuramente un’altra cosa.
Il Partito Democratico ha la responsabilità di avere assecondato il percorso di riforma sino al Referendum, senza aver ottenuto alcuna contropartita, neanche l’approvazione della nuova legge elettorale che avrebbe dovuto precedere il Referendum stesso. Non si tratta solo di un cedimento indotto dalle circostanze: nel Partito Democratico non è mai decollato un serio dibattito sul modello di democrazia e sulla visione istituzionale, permanendo impostazioni ideologiche contrastanti, talune delle quali espressione di un’idea elitaria e verticistica della politica.
Ma un Partito non può sopravvivere senza esprimere un’idea forte di democrazia. Quando nacque il Partito Popolare fu proprio una nuova e ben chiara idea dell’organizzazione politica e istituzionale a cementarne l’identità.
Purtroppo la tendenza prevalente non da molte speranze ai sostenitori del No. Se dovesse, dunque, vincere il Sì alla riforma, il Partito Democratico dovrebbe misurarsi con ben altra forza sul modello elettorale. Personalmente ritengo (senza certezze assolute) che solo collegi uninominali alla Camera e al Senato siano in grado di rendere più partecipate le elezioni politiche e di attutire la profonda ferita sofferta dalla rappresentanza di cittadini e territori.
La proposta di riforma costituzionale prevede la riduzione da 630 deputati a 400 e dei senatori da 315 a 200 con una riduzione, per ciascuno dei due rami del Parlamento, pari – in termini percentuali – al 36,5 per cento degli attuali componenti elettivi.
A seguito della modifica costituzionale muta dunque il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto. Per la Camera dei deputati tale rapporto aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce, a sua volta, da 188.424 a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat).
Oggi l’Italia esprime all’incirca (e con arrotondamenti) 1 deputato ogni 100.000 abitanti, la Francia 0,9, la Germania 0,9, il Regno Unito 1,0 e la Spagna 0,8. Con la riforma l’Italia si posiziona a quota 0,7. La più bassa rappresentatività in Europa su tutti i Paesi membri, nessuno dei quali sente la necessità di intervenire su questa materia.
La riduzione del numero di parlamentari con l’attuale legge elettorale implica tra l’altro una forte spinta maggioritaria che in alcune situazioni del Senato, alla luce di un’elezione su base regionale, giunge a promuovere l’affermazione del partito unico. Quindi il calo di rappresentatività si accompagna alla forte riduzione del pluralismo.
Se il correttivo fosse l’aumento del territorio dei collegi si arriverebbe a grandezze la cui copertura richiederebbe la disponibilità per il candidato di ingenti risorse economiche, comunque superiori alle attuali, con una agibilità elettorale riservata solo ai portatori di interessi forti che imporrebbero una spinta neo-corporativa o lobbistica all’ordine costituzionale. Si tratta di una deformazione della rappresentanza simile a quella indotta dal sistema elettorale per il Parlamento Europeo, molto costoso per i candidati, i cui effetti già oggi si possono misurare nella distanza emotiva fra i cittadini e le rappresentanze europee.
L’indebolimento delle istituzioni democratiche non è neanche compensato da vantaggi economici. La riduzione dei costi indotti dalla riforma (davvero modesto: si dice 500 milioni a legislatura, in realtà meno di 300) avrebbe ben potuto realizzarsi con una serie più bilanciata di interventi che avrebbero potuto riguardare in misura più limitata la riduzione del numero dei parlamentari e in misura più sostenuta il complessivo funzionamento delle Camere e l’insieme dei benefici di cui gode il sistema bicamerale con riguardo non solo a quelli dei parlamentari, ma anche a quelli dell’apparato burocratico.
Si è, invece, preferito inseguire il malessere sociale e attaccare direttamente gli organi costituzionali più importanti del nostro ordinamento, con una deriva tendenzialmente eversiva di cui non siamo oggi in grado di valutare i limiti, ma di cui siamo in grado di osservare alcune evidenze: la prevalenza dell’economia e della tecnica sulla politica, la sostituzione della magistratura nei compiti propri del legislatore, il prevalere del potere centrale (nazionale e regionale) sulle autonomie locali e le formazioni sociali e altro ancora.
Le leggi di riforma (in particolare elettorale) che hanno riguardato la politica in gran parte hanno portato a un indebolimento della rappresentanza e della partecipazione e alla concentrazione del potere. La stessa scelta della preferenza unica a tutti i livelli elettivi, pur nelle ragioni che l’hanno ispirata, ha favorito una personalizzazione del potere politico. Questa riforma va nella stessa direzione.
Voglio invitare poi agli amici che (come me) hanno creduto nella riforma costituzionale promossa dal Governo Renzi a non sentirsi chiamati a un dovere di coerenza. In quel caso i deputati venivano mantenuti nel numero attuale di 630 e si provvedeva a raggiungere l’obiettivo di una maggior efficienza (anche economica) dell’ordinamento costituzione correggendo il cosiddetto bicameralismo perfetto, ormai datato nelle sue ragioni storiche e politiche, istituendo un Senato delle Autonomie, formato da 100 rappresentanti già membri dei consigli regionali e in parte comunali ed eletti in secondo grado. Può non piacere, ma è sicuramente un’altra cosa.
Il Partito Democratico ha la responsabilità di avere assecondato il percorso di riforma sino al Referendum, senza aver ottenuto alcuna contropartita, neanche l’approvazione della nuova legge elettorale che avrebbe dovuto precedere il Referendum stesso. Non si tratta solo di un cedimento indotto dalle circostanze: nel Partito Democratico non è mai decollato un serio dibattito sul modello di democrazia e sulla visione istituzionale, permanendo impostazioni ideologiche contrastanti, talune delle quali espressione di un’idea elitaria e verticistica della politica.
Ma un Partito non può sopravvivere senza esprimere un’idea forte di democrazia. Quando nacque il Partito Popolare fu proprio una nuova e ben chiara idea dell’organizzazione politica e istituzionale a cementarne l’identità.
Purtroppo la tendenza prevalente non da molte speranze ai sostenitori del No. Se dovesse, dunque, vincere il Sì alla riforma, il Partito Democratico dovrebbe misurarsi con ben altra forza sul modello elettorale. Personalmente ritengo (senza certezze assolute) che solo collegi uninominali alla Camera e al Senato siano in grado di rendere più partecipate le elezioni politiche e di attutire la profonda ferita sofferta dalla rappresentanza di cittadini e territori.
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