Il virus e l’impatto ambientale



Giannino Piana    2 Luglio 2020       0

“Invadiamo foreste tropicali e paesaggi selvaggi che ospitano così tante specie di animali e piante, e all’interno di quelle creature, così tanti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali e li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, questi virus hanno bisogno di un nuovo ospite. Spesso, quell’ospite siamo noi”. Così ha scritto di recente sul New York Times David Quammen, autore alcuni anni fa di un libro profetico dal titolo emblematico Spillover. Infezioni animali e la prossima pandemia umana (2012), che ha anticipato l’esplosione del coronavirus.

Sono molti oggi in realtà a considerare la distruzione della biodiversità naturale – dissesto degli habitat naturali e inquinamento antropico – come la causa principale dell’attuale pandemia e a segnalare con forte preoccupazione che, se non si pone per tempo rimedio dando vita a interventi drastici a livello planetario, si moltiplicheranno effetti distorti di ogni specie destinati a mettere radicalmente a repentaglio la vita dell’uomo.

Nel cuore del problema

La pandemia ha colpito un mondo già profondamente in dissesto, dove gli equilibri degli ecosistemi sono fortemente precari – un milione di specie rischia l’estinzione immediata – e le previsioni sul futuro sempre più fosche. Non è senza significato chele epidemie degli ultimi anni – da Ebola a SARS, da MERS all’influenza viaria e all’HIV – siano di origine animale. La diffusione del virus è infatti prodotta dalla riduzione delle barriere naturali, che hanno rappresentato per secoli un argine al contagio. La distruzione delle grandi foreste, la riduzione delle specie vegetali che sono alla base degli alimenti dell’uomo – si pensi soltanto al grano – la consumazione del suolo per colture e allevamenti e il terreno trivellato in cerca di materiali e combustibili, nonché il cambiamento climatico con le ricadute pesanti che conosciamo – è sufficiente richiamare qui l’attenzione sullo scioglimento accelerato dei ghiacciai – sono altrettanti fattori che spiegano la mancata protezione dai virus.

Ma c’è di più. I fenomeni ricordati hanno determinato lo spostamento di molte specie di animali dal loro habitat originario in contesti urbani – l’evoluzione tecnologica ha segnato l’accelerazione di questo processo – con una rapida trasformazione della loro identità, dovuta alla pressione selettiva delle città (in particolare delle grandi megalopoli) le quali svolgono la funzione di incubatori evolutivi, che inducono a cambiamenti coinvolgenti lo stesso corredo genetico. Da sempre la prossimità all’uomo e l’inserimento negli ambienti urbani ha cambiato le abitudini e i comportamenti di alcune specie; ma questo avviene oggi in maniera molto più accentuata e con un ritmo incalzante, con effetti sempre più preoccupanti.

È nata così in tempi piuttosto recenti una disciplina definita da alcuni zoologi «evoluzione urbana», che – come ci ricorda l’evoluzionista olandese Menno Schilthnizen (Darwin Come to Town, Picador 2018), studiando il DNA di alcune specie animali, in particolare di esemplari di topi rurali e di topi cittadini, ha evidenziato il costituirsi in tempi brevissimi di differenze sostanziali. Tutto questo ha influito (e non poteva che influire) sul mondo umano: liberati dai loro ospiti naturali i virus – come ha ricordato David Quammen – hanno trovato (e trovano tuttora) come nuovo ospite l’uomo. A conferma di ciò basti ricordare che nel 2008 Kate Jones dell’University College di Londra, che ha identificato 335 malattie infettive emergenti a livello globale tra il 1940 e il 2004, rilevava come il 60% di esse proviene da fauna selvatica.

La necessità di una svolta radicale

La odierna pandemia ha reso dunque evidenti le conseguenze negative provocate dalla devastazione dell’ambiente. La compromissione del mondo naturale ha danneggiato (e tuttora danneggia) rovinosamente l’esistenza umana. Cresce in tal modo la consapevolezza che scienza e tecnologia, che hanno ampiamente dilatato le possibilità di conoscenza e di azione dell’uomo con interventi manipolativi sempre più estesi e sofisticati nei confronti della natura, hanno nello stesso tempo originato processi devastanti il cui esito è la distruzione della vita. Il che ci mette di fronte alla strutturale ambivalenza del progresso nelle sue diverse manifestazioni, con la conseguenza di un duro colpo all’ottimismo illuministico e all’esaltazione della ragione strumentale, che hanno avuto il sopravvento nella modernità.

Questa percezione, già avvertita da pensatori del primo Novecento banditi dalla cultura ufficiale del tempo come reazionari – è sufficiente ricordare qui Spenglere Huizinga –, è rimasta purtroppo a lungo appannaggio di poche élite e non ha influito (e non influisce ancor oggi) sugli sviluppi della vita economica e sociale, che ha invece vieppiù privilegiato, accentuandone la consistenza e assecondandone il ritmo evolutivo, il paradigma produttivista e utilitarista. Il coronavirus, per l’ampiezza della popolazione che ha raggiunto a livello mondiale e per il forte coinvolgimento esistenziale ed emotivo che comporta, può forse diventare l’occasione per un ampio cambiamento di mentalità e per dare, di conseguenza, avvio alla ricerca di un sistema alternativo a quello attuale.

Il presupposto su cui vanno fondati questo cambiamento e questa ricerca è la considerazione che mondo umano e mondo naturale sono inscindibili e partecipano di una medesima vicenda fatta di azioni e reazioni, che devono essere attentamente soppesate nello sforzo di dar vita a nuovi e più corretti equilibri. La scelta è divenuta, grazie anche agli ultimi accadimenti, urgente. Siamo difronte – come ci ha ricordato poco prima dello scoppio del virus con anticipazione profetica Lawrence Wright in un libro edito da poco in italiano dal titolo sorprendente Pandemia (Piemme 2020) – ad un bivio: occorre scegliere con la convinzione che la vera liberazione non può che essere collettiva ed ecologicamente integrata.

Come uscire dal tunnel

In questo stato di grave rischio si impone un imperativo cruciale, l’obbligo di disegnare in modo creativo nuovi scenari di futuro. A tale proposito essenziale è l’assunzione di un giusto (e realistico) atteggiamento volto a ricuperare un rapporto armonico nei confronti della natura; rapporto il quale esige, da un lato, il superamento del mito del desiderio illimitato destinato a condurci nel vuoto; e, dall’altro, l’attenzione a non indulgere verso un ottimismo naturalistico, che ignora la persistenza di una mai del tutto risolta tensione conflittuale, muovendo alla ricerca di una comunione, da realizzare nel segno di una mediazione (permanentemente in fieri) tra impegno trasformativo e rispetto dell’identità.

Questa scelta, che ha connotati decisamente etici, esige tuttavia il verificarsi di una serie di condizioni che conferiscano concretezza al cambio del sistema.

La prima di tali condizioni è l’impegno a preservare la biodiversità. La presa di coscienza che si dà una continuità tra natura e umanità, e che pertanto il nostro ecosistema è in stretta relazione con una serie di ecosistemi i cui delicati equilibri non possono essere impunemente alterati, obbliga non solo ad arrestare processi devastanti come la deforestazione e il riscaldamento globale, ma anche a ricuperare ciò che è stato distrutto – si pensi ai rimboschimenti – o a sostituire energie inquinanti con energie pulite e rinnovabili, o ancora a ripristinare specie soppresse, abbandonando paradigmi di mera crescita quantitativa per perseguire la diversità e la qualità.

A questo deve affiancarsi – è la seconda scelta – l’attenzione a coniugare – come ci ha insegnato la Laudato si' di papa Francesco – ambiente e giustizia sociale, dando vita a un sistema insieme ecosostenibile e giusto, rispettoso delle risorse naturali e capace di soddisfare in modo equo i bisogni di tutti.

Le conseguenze negative dell’attuale deriva ambientale non si limitano infatti a mettere semplicemente in pericolo la salute e la vita dell’uomo (e, più in generale, delle specie animali e vegetali del pianeta) ma si riflettono anche direttamente sulle condizioni economiche e sociali di un numero elevatissimo di persone. Questione ecologica e questione sociale vanno pertanto affrontate simultaneamente e con attenzione alle reciproche interazioni.

La terza condizione, infine, chiama in causa la necessità del cambiamento degli stili di vita personali, familiari e sociali. L’efficacia delle decisioni economiche e politiche (e prima ancora la possibilità della loro assunzione) è strettamente connessa al farsi strada di una disponibilità popolare diffusa – il consenso del popolo è uno dei pilastri sui quali si regge la vita democratica –, alla decisione cioè di ciascun cittadino di abbandonare la logica consumistica che dilata smisuratamente la dinamica dei bisogni, per aderire a proposte finalizzate ad evitare gli sprechi di energie e di beni fondamentali per la vita – l’acqua in primis –; a fare sempre più ricorso a mezzi che limitano l’inquinamento – rinuncia a riscaldamento e raffreddamento abnorme, utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto, riduzione dei rifiuti, e cosi via –; e a privilegiare l’acquisto di prodotti biologici.

La salvezza della terra è oggi più che mai dipendente dalle condizioni indicate. Alla base delle quali vi è il valore della sobrietà, che comporta la riduzione dei bisogni superflui (spesso alienanti) e il perseguimento come obiettivi prioritari dei beni relazionali e della qualità della vita.

(Tratto da “Rocca”, rivista della Pro Civitate Christiana Assisi)


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