Umberto Galimberti, nella prima fase, assai distopica, della comunicazione in tema di epidemia virale ha opportunamente distinto tra paura, stimolata dall’istinto di sopravvivenza che ci fa valutare i pericoli reali e l’angoscia che iniziava a pervadere l’opinione pubblica bombardata da messaggi pseudo-comunicativi, pseudo-scientifici, pseudo-politici.
Cosa sta evidenziando questa vicenda, in fase di sviluppo e di elaborazione individuale e collettiva? A un primo approccio direi: la mancanza di una cultura del rischio, del senso del limite e del senso della morte.
Il senso del rischio
Dai filosofi (Jonas), ai sociologi (Beck , Bauman), ai giuseconomisti, da tempo, sin dalle vicende della diossina, di Cernobyl e della mucca pazza, si evidenzia che siamo entrati in una società del rischio senza avere sviluppato una analoga capacità di conoscere, elaborare, accettare il fatto che la società neo- industriale propone sempre nuovi, virulenti e imprevedibili rischi di ogni tipo. Insegniamo ai nostri studenti, futuri manager, che il rischio in azienda deve :
a) essere conosciuto, acquisendo informazioni in anticipo, valutando le probabilità anche minime, confrontando con le possibilità reali di gestione ;
b) essere gestito se si realizza l’evento imprevisto ,eliminando le cause, se possibile, o limitando gli effetti dannosi , se economici con le assicurazioni, gestendo con rapidità i rapporti interni (personale) ed esterni (tutti i soggetti interessati) all’azienda;
c) essere comunicato in modo rapido, efficace, univoco e non angosciante. Sul punto occorre ricordare che un evento imprevisto e pericoloso innesca nel circuito limbico (dall’amigdala alla corteccia prefrontale) una reazione incontrollata immediata che stimola tre diverse reazioni: fuga, aggressività, panico e paralisi. La vicenda del virus ha evidenziato che comunicatori, scienziati, politici non solo sono stati mossi da motivazioni improprie (desiderio di enfatizzare a fini scandalistici, lotta tra scuole scientifiche, uso a fini politico-elettorali dell’evento) quanto che non sono stati preparati, sin dalla loro formazione scolare e universitaria, a gestire tali eventi. E ciò sta dimostrando ai cittadini, soprattutto quelli che nella loro esperienza hanno gestito vicende analoghe famigliari, aziendali, catastrofali (terremoti, inondazioni, guerre) quanto sia fragile e impreparata la attuale classe politica italiana.
Il senso del limite
Sta emergendo che la società del narcisismo, evocata negli anni ’70 per la gioventù americana, e poi europea, ha perduto il senso del limite. L’esportazione in Europa e in Italia del darwinismo sociale che porta a esaltare la competizione, la prevalenza del più forte, l’esaltazione del progresso anche a danno dei deboli e della natura, e della conseguente fuga dalle responsabilità esaltata dall’individualismo esasperato e dal consumismo sfrenato, utile a un certo tipo di espansione economica (si pensi allo sviluppo del marketing da subliminale a virale a neurologico) ha messo in secondo piano, e in certi casi ridicolizzato, la cooperazione sociale, la solidarietà verso i bisognosi, l’altruismo. Eppure gli antropologi ci confermano che sono il collante della comunità, delle società non decadenti.
Il virus e il pericolo di pandemia stanno facendo riemergere questi ultimi valori evidenziando che le classi dirigenti (politiche, economiche, culturali) che hanno fondato la loro legittimazione e narrazione sul successo non sono in grado di essere credibili quando chiedono fiducia a chi questi limiti li ha vissuti, li sta vivendo e cerca di gestirli. Si pensi al ruolo dei nonni che negletti perché non più produttivi e privi di immagine di successo, ieri ( dopo la crisi del 2008) erano di sostegno, nella riduzione del welfare, con i risparmi e le pensioni ai narciso-consumisti, oggi di supporto alle famiglie bi-lavoratrici. Da soggetti di “scarto”, come li richiama papa Francesco a soggetti di “sostegno” per l’intera società. E perdita del senso del limite anche della scienza e della tecnologia che, abbacinate dallo scientismo ottocentesco stanno scoprendo che l’uomo “sa di non sapere” e illuse dal “quantitativismo “ scoprono che i numeri sono un linguaggio che deve, come tutti i linguaggi essere adeguatamente comunicato e interpretato. Deludendo forse Odifreddi, ma rivalutando i veri moderni scienziati.
Il senso della morte
Il virus ha fatto riemergere un fantasma per anni tenuto nell’armadio: il senso della morte. È emerso il panico per un evento naturale, in particolare ad avanzata età, che la cultura narcisista ha voluto escludere dal panorama delle esperienze umane. Forse perché il materialismo non è in grado di gestire le reazioni emozionali e subconscie che la morte produce sia in chi se ne avvicina sia, soprattutto, in chi ne è indirettamente coinvolto (coniugi, parenti, amici). Mentre lo spiritualismo, e le religioni, che ne sono l’aspetto organizzato, dalla notte dei tempi gestiscono questo passaggio inevitabile, e in certi casi persino accettabile, dell’esperienza umana. Il ridursi forzato dei contatti di tipo superficiale, sostituito dalla meditazione individuale o dai contatti rilevanti, quindi veri, sta portando molti di noi a rivedere i modelli di comportamento e di pensiero. Era così indispensabile andare alla partita di calcio, o non era uno strumento di sfogatoio dell’aggressività collettiva indotta (panem et circenses)? Era così indispensabile affollare gli outlet, soprattutto la domenica, sostituendo un rito pagano a momenti di convivialità famigliare. Era così necessario acquistare farmaci a gogo quando molte malattie sono psicosomatiche e basta ai più , come per una normale influenza, la ricetta della Scuola salernitana: “acqua, dieta, riposo”?
Credo che noi Popolari ci auguriamo che questa esperienza, soprattutto ai giovani, richiami nuovi modelli di comportamento, di economia, di socialità.
Cosa sta evidenziando questa vicenda, in fase di sviluppo e di elaborazione individuale e collettiva? A un primo approccio direi: la mancanza di una cultura del rischio, del senso del limite e del senso della morte.
Il senso del rischio
Dai filosofi (Jonas), ai sociologi (Beck , Bauman), ai giuseconomisti, da tempo, sin dalle vicende della diossina, di Cernobyl e della mucca pazza, si evidenzia che siamo entrati in una società del rischio senza avere sviluppato una analoga capacità di conoscere, elaborare, accettare il fatto che la società neo- industriale propone sempre nuovi, virulenti e imprevedibili rischi di ogni tipo. Insegniamo ai nostri studenti, futuri manager, che il rischio in azienda deve :
a) essere conosciuto, acquisendo informazioni in anticipo, valutando le probabilità anche minime, confrontando con le possibilità reali di gestione ;
b) essere gestito se si realizza l’evento imprevisto ,eliminando le cause, se possibile, o limitando gli effetti dannosi , se economici con le assicurazioni, gestendo con rapidità i rapporti interni (personale) ed esterni (tutti i soggetti interessati) all’azienda;
c) essere comunicato in modo rapido, efficace, univoco e non angosciante. Sul punto occorre ricordare che un evento imprevisto e pericoloso innesca nel circuito limbico (dall’amigdala alla corteccia prefrontale) una reazione incontrollata immediata che stimola tre diverse reazioni: fuga, aggressività, panico e paralisi. La vicenda del virus ha evidenziato che comunicatori, scienziati, politici non solo sono stati mossi da motivazioni improprie (desiderio di enfatizzare a fini scandalistici, lotta tra scuole scientifiche, uso a fini politico-elettorali dell’evento) quanto che non sono stati preparati, sin dalla loro formazione scolare e universitaria, a gestire tali eventi. E ciò sta dimostrando ai cittadini, soprattutto quelli che nella loro esperienza hanno gestito vicende analoghe famigliari, aziendali, catastrofali (terremoti, inondazioni, guerre) quanto sia fragile e impreparata la attuale classe politica italiana.
Il senso del limite
Sta emergendo che la società del narcisismo, evocata negli anni ’70 per la gioventù americana, e poi europea, ha perduto il senso del limite. L’esportazione in Europa e in Italia del darwinismo sociale che porta a esaltare la competizione, la prevalenza del più forte, l’esaltazione del progresso anche a danno dei deboli e della natura, e della conseguente fuga dalle responsabilità esaltata dall’individualismo esasperato e dal consumismo sfrenato, utile a un certo tipo di espansione economica (si pensi allo sviluppo del marketing da subliminale a virale a neurologico) ha messo in secondo piano, e in certi casi ridicolizzato, la cooperazione sociale, la solidarietà verso i bisognosi, l’altruismo. Eppure gli antropologi ci confermano che sono il collante della comunità, delle società non decadenti.
Il virus e il pericolo di pandemia stanno facendo riemergere questi ultimi valori evidenziando che le classi dirigenti (politiche, economiche, culturali) che hanno fondato la loro legittimazione e narrazione sul successo non sono in grado di essere credibili quando chiedono fiducia a chi questi limiti li ha vissuti, li sta vivendo e cerca di gestirli. Si pensi al ruolo dei nonni che negletti perché non più produttivi e privi di immagine di successo, ieri ( dopo la crisi del 2008) erano di sostegno, nella riduzione del welfare, con i risparmi e le pensioni ai narciso-consumisti, oggi di supporto alle famiglie bi-lavoratrici. Da soggetti di “scarto”, come li richiama papa Francesco a soggetti di “sostegno” per l’intera società. E perdita del senso del limite anche della scienza e della tecnologia che, abbacinate dallo scientismo ottocentesco stanno scoprendo che l’uomo “sa di non sapere” e illuse dal “quantitativismo “ scoprono che i numeri sono un linguaggio che deve, come tutti i linguaggi essere adeguatamente comunicato e interpretato. Deludendo forse Odifreddi, ma rivalutando i veri moderni scienziati.
Il senso della morte
Il virus ha fatto riemergere un fantasma per anni tenuto nell’armadio: il senso della morte. È emerso il panico per un evento naturale, in particolare ad avanzata età, che la cultura narcisista ha voluto escludere dal panorama delle esperienze umane. Forse perché il materialismo non è in grado di gestire le reazioni emozionali e subconscie che la morte produce sia in chi se ne avvicina sia, soprattutto, in chi ne è indirettamente coinvolto (coniugi, parenti, amici). Mentre lo spiritualismo, e le religioni, che ne sono l’aspetto organizzato, dalla notte dei tempi gestiscono questo passaggio inevitabile, e in certi casi persino accettabile, dell’esperienza umana. Il ridursi forzato dei contatti di tipo superficiale, sostituito dalla meditazione individuale o dai contatti rilevanti, quindi veri, sta portando molti di noi a rivedere i modelli di comportamento e di pensiero. Era così indispensabile andare alla partita di calcio, o non era uno strumento di sfogatoio dell’aggressività collettiva indotta (panem et circenses)? Era così indispensabile affollare gli outlet, soprattutto la domenica, sostituendo un rito pagano a momenti di convivialità famigliare. Era così necessario acquistare farmaci a gogo quando molte malattie sono psicosomatiche e basta ai più , come per una normale influenza, la ricetta della Scuola salernitana: “acqua, dieta, riposo”?
Credo che noi Popolari ci auguriamo che questa esperienza, soprattutto ai giovani, richiami nuovi modelli di comportamento, di economia, di socialità.
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