La lezione che arriva dalla Turingia



Guido Bodrato    15 Febbraio 2020       3

Le elezioni in Turingia, piccolo lander della Germania dell'Est, hanno costretto l'Europa a interrogarsi ancora una volta sul proprio futuro, come aveva fatto quando il “sovranismo” aveva minacciato il difficile cammino del Vecchio Continente verso l'Unione. Questa volta con maggiore preoccupazione, poiché la “destra radicale” e le sue radici neo-naziste, rappresentano, per la Germania e quindi per l'Europa, una minaccia alla democrazia. In Turingia le elezioni hanno reso evidente l'avanzata della destra radicale e il parallelo declino dei cristiano-democratici e dei liberali, cioè dei partiti che rappresentano l'elettorato moderato e conservatore. La Link, la sinistra post-comunista, ha riconquistato, con il 31% dei voti, la maggioranza relativa, ma non ha potuto ritornare al governo con il solo appoggio dei socialisti. Un lungo braccio di ferro tra la sinistra e il centrodestra, si è concluso con l'elezione alla presidenza della regione del candidato liberale, con il voto determinante dell'AFD, il partito della destra, nazionalista e anti-europeista.


In Turingia sta per crollare la diga eretta contro l'estrema destra? Dalle ceneri della storia, ma anche dall'eredità dei regimi comunisti sta riemergendo il fantasma del nazional-socialismo?


Nella Germania Orientale da qualche tempo vengono prove della presenza di una destra, per molti versi contigua all'onda sovranista che sta condizionando la vita politica nei paesi dell'Est dell'Europa. I sovranisti della Polonia e dell'Ungheria considerano la “democrazia illiberale” una possibile alternativa alla “democrazia liberale”, puntano cioè allo stravolgimento degli equilibri politici, seguendo gli obiettivi del nazional-populismo.


I politologi stanno cercando di spiegare le ragioni di questo smottamento dei partiti democratici, più evidente nelle regioni orientali della Germania. Perché i partiti moderati e riformisti che hanno scritto la storia della Germania, stanno perdendo consensi?


La domanda riguarda in particolare il CDU, il partito di centro (spesso citato come conservatore) che ha fatto da argine alla destra radicale, come la DC in Italia è stata la “diga” anti-comunista.


Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, fu Helmut Kohl a decidere – con la riunificazione tra la Repubblica Federale e la DDR satellite dell'URSS, e con il comunismo fuorilegge – i nuovi confini dell'Unione europea. Tuttavia dopo trent'anni da quello storico evento, dopo cambiamenti economici e sociali di straordinaria importanza, le regioni dell'Est si sentono ancora isolate, dimenticate da Berlino; si sentono ai margini della crescita economica che ha caratterizzato la “Grande Germania”. E per protesta votano la destra radicale.


Il disagio sociale, accentuato dalla globalizzazione, spiega molto, ma non spiega tutto. Ho spesso citato un manifesto dei giovani cechi, pubblicato a Praga nell'89 contro il regime comunista: “Niente dura per sempre”. Ma ciò che sta accadendo, non solo in Germania, ci dice che “se non ne abbiamo memoria, il passato può tornare”.


Angela Merkel ha reagito con energia al voto della Turingia considerandolo una inaccettabile cancellazione della “memoria”, una legittimazione del neo-nazismo, una minaccia al governo di Berlino tra cristiano-democratici e socialdemocratici. Ma soprattutto un voto che trasformava un “partito di protesta” in una alternativa alla democrazia, colpita nei valori che hanno caratterizzato la rinascita della nuova Germania, il suo affermarsi in Europa e nel mondo. Il presidente liberale si è dimesso, la UDC della regione è stata messa sotto accusa, e la Turingia tornerà al voto. Il Cancelliere che viene dall'Est, non aveva dimenticato che negli anni '30 dalla Turingia era iniziata l'inarrestabile marcia di Hitler...


Il NO della Merkel a qualunque accordo con i neo-nazisti, ricorda il NO di De Gasperi, nel '52 a un accordo con monarchici e neo-fascisti, proposto dal clerico-moderatismo, con il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche della Capitale, “per salvare Roma dall'occupazione dei bolscevichi”... La DC non poteva tradire la sua storia, i valori della Costituzione. La Merkel, l'ultima centrista?


Dalla vicenda elettorale della Turingia si è mosso Paolo Mieli (“Corriere della sera”, 8 febbraio 2020) per mettere in evidenza l'importanza che ha, nello svolgersi della vicenda politica, in un tempo di grandi cambiamenti, il riferimento al sistema elettorale. Mieli, autorevole giornalista e storico molto attento all'attualità, sa che i sistemi elettorali condizionano la politica, il suo modo di organizzarsi, il suo linguaggio; ma che non sono tutta la politica, né il maggioritario né il proporzionale. Ed è chiaro, anche a noi, che un giornalista, specie quando scrive di politica, dei conflitti e dei compromessi che la caratterizzano, finisce per “prendere parte”, per schierarsi a sinistra o a destra.


Questo accade anche a Mieli, che conosce l'importanza della storia, della memoria, della manipolazione della storia che la mette al servizio della lotta politica... La riflessione sulla Turingia si conclude nella constatazione che “per la prima volta, sia pure solo per qualche ora, si è aperta una falla nel muro dell'antisovranismo europeo”. E questo fatto, a parere di Mieli, è stato reso più pericoloso da un sistema elettorale “per cui chi va al potere non lo decidono gli elettori bensì gli eletti (per di più sulla base di trattative non trasparenti)”. Per Mieli un sistema proporzionale – come è in Germania – “può finire per favorire l'incontro tra centristi e destra, anche la più radicale”. Mentre, sostiene Mieli, “in nessun Paese europeo è probabile che l'estrema destra conquisti da sola il 50% dei voti.” Meglio l'elezione diretta, “meglio che il presidente lo decidano gli elettori, come accade nelle Regioni e nei Comuni italiani”.


La riflessione di Mieli si incontra a questo punto con quella che, qualche giorno prima, concludeva una “lezione sulle leggi elettorali” di Sabino Cassese (“Corriere della sera”, 6 febbraio 2020). L'autorevole costituzionalista, dopo aver illustrato limiti e contraddizioni di tutte le esperienze elettorali fatte nella storia della Repubblica, messe a rischio da chi vuole trasformare una democrazia liberale in una democrazia autoritaria, concludeva con queste parole: “Infine, da un quarto di secolo sperimentiamo formule elettorali che hanno dato stabilità ai governi substatali (Regioni e Comuni). Non è anche questa una lezione da cui imparare?”.


Qui si è fermato Cassese. Se avesse continuato, avrebbe dovuto constatare che l'elezione diretta del Premier richiederebbe una riforma costituzionale di grande impegno, costringerebbe ad imboccare una strada che porta al presidenzialismo, al bivio tra l'elezione ad un turno, come negli Stati Uniti, o a due turni, come in Francia.


Quale strada scegliere? Il più autorevole studioso di sistemi elettorali, Giovanni Sartori, direbbe che quella degli USA è una pessima legge, e il semipresidenzialismo francese è una legge ottima. Ma farebbe notare che entrambi i sistemi prevedono una elezione per il presidente, e un'altra elezione per il Congresso e per l'Assemblea Nazionale... Per evitare che l'obiettivo del “presidenzialismo” (garanzia di stabilità) cancelli quello, per la democrazia molto più importante, della separazione dei poteri: esecutivo e legislativo. Problema che nei Comuni e nelle Regioni non ha comunque a stessa rilevanza.


Quando si fanno confusioni (con le migliori intenzioni...) ne vanno di mezzo anche l'indipendenza della magistratura e la libertà dell'informazione. Questo è il precipizio in cui sta cadendo, in Polonia e in Ungheria, la “democrazia illiberale”...


L'ultima riflessione di Paolo Mieli è un secchio di acqua fredda sugli entusiasmi dei riformatori. È un ritorno alla lezione di Cassese: Mieli riconosce che “l'esperienza italiana, dal '94, insegna che nessun sistema di voto mette al riparo da coalizioni eterogenee, dal trasformismo, dal 'cambio di casacca'... La democrazia entra in crisi quando perde l'anima... E l'anima della democrazia è il dialogo, il rispetto dell'avversario, il pluralismo. La democrazia richiede uno spirito di servizio che faccia prevalere il bene comune sull'interesse personale e di parte...


Se questo è, infine, ciò che conta in politica, come si può immaginare che un sistema elettorale che spinge alla radicalizzazione delle posizioni, alla liquidazione del nemico, ai pieni poteri come garanzia di stabilità del potere, possa evitare l'esaltazione dell'uomo forte, del Capo?


Non a caso i padri della Costituzione ci hanno lasciato un sistema proporzionale, perfettibile ma da non stravolgere.




3 Commenti

  1. Ragionamento impeccabile che deriva da una visione alta ed allo stesso tempo concreta. Com’e’ stridente il contrasto con commenti politici infarciti di retroscena sempre piu’ artefatti…

  2. Temo che ci sia troppo (di per sè in astratto condivisibilissimo) razionalismo nell’articolo di Bodrato.
    Il mio pessimismo sulla natura umana, in particolare e sui limiti di capacità di controllo delle passioni e degli istinti, mi spinge a chiedermi come, davanti al disagi psicologici che, per ragioni obiettive difficilmente correggibili (complessità ai limiti della governabilità del “sistema mondo” pressato da immani problemi ecologici, in primis la bomba demografica), rischiano di esplodere, le (negativissime) passioni umane che stanno manifestandosi possano essere imbrigliate dalla razionalità.
    Cito Machiavelli: LE BUONE LEGGI (nella fattispecie le leggi elettorali) RAFFORZANO I BUONI COSTUMI, MA LE BUONE LEGGI SENZA I BUONI COSTUMI NON SERVONO A NULLA.
    L’azione politica, non solo italiana ed europea ma mondiale, dovrebbe riflettere su come indirizzarsi secondo orientamenti ben diversi da quelli del “bellum (oeconomicum) omnium contra omnes” destinati a creare solo vinti senza alcun vincitore dominante, magari in un deserto che “chiamano pace”, vuoi per motivi economici vuoi per motivi ecologici. E’ facile capire a che cosa può portare tutto ciò in termini di desiderio di rivalsa. Altro che sistemi elettorali!

  3. Credo che nelle due posizioni si scontrino, dialogando, due visioni antropologiche e filosofiche della convivenza umana: quella della lotta volta a sopraffare l’avversario e ” vincere”, la violenza come levatrice della storia (Hegel) che partorirà la “lotta di classe” marxista, e quella del dialogo, della negoziazione, del giusto mezzo come individuazione del “bene comune”. Nell’arte della guerra di Sun Tzu si ricorda che il grande generale non avrà mai un monumento che lo ricordi, perchè quando arriverà di fronte alla città nemica gli apriranno le porte, in quanto ha preparato l’attacco dieci anni prima, usando accordi, seduzione, astuzia e autorevolezza.
    Io sono “cinese” e credo lo sia anche Bodrato.

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